Il modello della Storia Cinese

L’epoca d’oro fu catalogata dai cinesi come una specie di “genesi” degli esseri umani, dove questi ultimi vivevano in pace e armonia; poi la società degenerò, ma restava la speranza che si sarebbero potuti stabilire nuovamente i suoi modelli. Essa era nutrita da un enfasi sullo schema ciclico della natura, simboleggiato dalle fasi della luna, e dall’ipotesi che le sue leggi avrebbero avuto allo stesso modo attinenza con la storia umana.

Si sviluppò l’idea del ciclo dinastico – moto regolare con l’ascesa e la caduta delle dinastie –, in esso l’elemento chiave era il comportamento umano con la sua tendenza a deviare dai principi morali. perciò Sima Qian, il Grande Storico, che visse tra il 145 e il 90 a.C., riassume la successione di dinastie precedente alla sua epoca.

Come conseguenza di tale punto di vista, e dal momento che diventò abitudine degli storici cinesi registrare gli avvenimenti inerenti la dinastia precedente, la storia della Cina fu ripartita in sezioni dinastiche. Ciò è in contrasto con la tradizione storica dell’Occidente che tendeva a percepire gli eventi come una progressione lineare piuttosto come una ripetizione ciclica. Questo ha condotto alcuni storici occidentali a criticare il concetto ciclico perché costituiva un ostacolo alla comprensione della dinamica fondamentale della storia cinese e a tentare di sostituirlo con interpretazioni lineari.

Edwin O. Reichauer fornì un sostegno alla base personale e morale dell’opinione cinese tradizionale. Egli pose in rilievo che il fondatore di una dinastia doveva essere un uomo di grande talento e notevole forza, laddove gli ultimi sovrani, allevati in una corte sfarzosa e dominata dagli intrighi, probabilmente erano deboli di carattere. Aggiunse che la maggior parte delle dinastie cinesi dovevano successivamente aver prodotto almeno un forte sovrano che ne aveva fatto rivivere le fortune. Comunque il carattere del governo era anche soggetto alla degenerazione via via che il tempo passava a causa delle lotte sempre più violente tra le fazioni di corte.

In contrasto con l’idea di struttura ciclica è il concetto di progressione lineare, che permea molte interpretazioni occidentali della storia cinese. L’esempio più ovvio è il punto di vista marxista, con la sua presunzione implicita che tutte le società umane seguono lo stesso percorso verso l’alto, da quella primitiva passando attraverso la schiavitù, fino al feudalesimo, al capitalismo, al socialismo e infine al comunismo. Non è mai stato facile, persino per i marxisti convinti, applicare efficacemente questa progressione all’esperienza cinese.

Un’altra forma di approccio lineare è quella in cui si applica alla Cina una visione della divisione tripartita (un errore) della storia antica, medievale e moderna, che è diventata così profondamente radicata dall’opinione occidentale sullo svilito della civiltà europea.

Un contributo particolarmente influente all’interpretazione della storia cinese fu dato allo storico giapponese Naito Torajiro. Questi mise in dubbio il punto di vista ampiamente sostenuto secondo cui il periodo moderno della storia cinese era cominciato con l’arrivo degli Occidentali, sia con la venuta dei mercanti e dei missionari del XVI secolo, sia con l’apertura della Cina dopo la prima Guerra dell’Oppio. Egli argomentò che in realtà aveva avuto inizio all’epoca della dinastia Song (960-1279), poiché in tale periodo la società aristocratica era definitivamente scomparsa. Essa era stata sostituita da una in cui era stato stabilito il potere dispotico dell’imperatore e allo stesso tempo si era verificato un miglioramento nella posizione dei cittadini comuni, non più schiavi (o piuttosto servi) dell’aristocrazia.

La teoria di Marx della storia supponeva che tutte le società avessero condiviso un’esperienza comune. Tuttavia, il punto di vista occidentale riguardo la Cina è sempre partito dalla contrastante permessa che la società cinese è fondamentalmente diversa da quella dell’Occidente. Le percezioni della Cina come società fondamentalmente diversa dall’Occidente ha portato a una dicotomia che ha attraversato gran parte delle successive opere occidentali su di essa. Da un canto esiste un’opinione favorevole, che le attribuisce il ruolo di modello per l’Europa; infatti il famoso Voltaire, il quale considerò il sistema di governo cinese, con il suo affidarsi a consigli provenienti dagli eruditi e la sua prescrizione della tolleranza religiosa, come un modello da emulare.

In Occidente è stato a lungo supposto che la civiltà cinese non avesse preistoria. Tuttavia, tale ipotesi fu scartata negli anni Venti del 1900, quando fu introdotto in Cina il modello dell’archeologia sul campo e cominciarono a essere fatte importanti scoperte. Da allora è stata prodotta un’enorme quantità di informazioni sulla sua preistoria. Tuttavia, una gran parte è ancora in fase di interpretazione e vi sono molte lacune sostanziali nelle nostre conoscenze.

J. A. G Roberts

Shuré

I Grandi Iniziati
Mosé

Arriva il Cristianesimo, vale a dire la religione di Cristo, non ci appare nella sua altezza e nella sua universalità finché non ci svela il suo contenuto esoterico. Allora soltanto esso si mostra come la risultante di tutto ciò che lo ha preceduto, si vedono in esso rinchiuso i princìpi, la fine e i mezzi della rigenerazione morale dell’umanità. Soltanto aprendoci i suoi misteri ultimi esso diventerà ciò che è veramente: la religione della promessa e del commento, cioè della iniziazione universale. Iniziazione stata fraintesa, ahimè, con la scissione del Cattolicesimo e l’obbligo indotto, con la violenza, alla conversione (non nel Medioevo, ma nell’era Moderna, cioè il Rinascimento).
Mosè, iniziato egizio e prete d’Osiride, fu incontestabilmente l’organizzatore del monoteismo. Egli ebbe l’audacia di fare del più alto principio dell’iniziazione il dogma unico di una religione nazionale.
La religione universale dell’umanità: ecco la vera missione d’Israele, che pochi ebrei hanno compresa, all’infuori dei suoi più grandi profeti. Questa missione, per compiersi, presupponeva l’assorbimento del popolo che la rappresentava.
La nazione ebraica è stata dispersa e annientata (ora, lei stessa annienta il prossimo: i palestinesi), l’idea di Mosè e dei profeti ha vissuto e cresciuto. Sviluppata, trasfigurata dal cristianesimo, ripresa dal’Islam, sebbene su un livello inferiore, essa doveva imporsi all’Occidente barbaro e reagire sulla stessa Asia (ma non in senso tirannico, dittatoriale, ma di elevatezza spirituale).
Per tale impresa, la più colossale del tempo dell’esodo preistorico degli arii, Mosè trovò uno strumento già preparato nelle tribù degli ebrei, e specialmente in quelle che si erano stabilite in Egitto, nella valle di Goshen, e vivendo in servitù sotto il nome Beni-Jacob. Nella fondazione di una religione monoteista egli aveva avuto dei precursori in quei re nomadi e pacifici, che la bibbia raffigura in Abraham, Isaac e Jacob.
Eran già noti da secoli, da millenni, quegli Ibrim (Ibrim=quelli dell’altro lato, quelli dell’al di là, quelli che hanno passato il fiume – Renan, Storia del popolo di Israele), quei nomadi infaticati, quelli eterni esiliati. Fratelli degli arabi, gli ebrei erano, come tutti i semiti, il risultato di un antico miscuglio di razza bianca e di razza nera.
Affascinante!
Erano stati visti passare e ripassare nell’Africa settentrionale sotto il nome di bodoni (beduini), uomini senza tana e senza letto, e poi posare le loro tende mobili nei vasti deserti, che si stendono fra il mar Rosso e il golfo Persico, fra l’Egitto e la Palestina.

Il nome Isaac con prefisso Is sembra indicare una iniziazione egizia, mentre quelli di Giacobbe e Giuseppe lasciano intravedere una origine fenicia. Comunque sia, è probabile che i tre patriarchi furono furono tre capi di popolazioni diverse, vissuti in epoche varie. Molto tempo dopo Mosè, la leggenda israeliana li raggruppò in una sola famiglia: Isaac diventò figlio di Abraham, e Jacob figlio di Isaac.
Che questi uomini abbiano avuto avvertimenti interiori o rivelazioni spirituali sotto forma di sogni o anche di visioni allo stato di veglia, non è in nulla contrario alla scienza esoterica e alla legge psichica universale, che regge le anime e i mondi (alla solita maniera accadde ai grandi scienziati, o coloro che fecero grandi scoperte). Questi fatti hanno preso nel racconto biblico la forma ingenua di visite di angeli ospitati sotto la tenda.
Inferiori tanto ai magi di Caldea che ai preti egizi nella scienza positiva, essi li sorpassarono probabilmente per altezza morale e per quella larghezza d’anima che porta con sé una vita errante e libera. Per essi l’ordine sublime, che Elohim fa regnare nell’universo, si traduce nell’ordine sociale del culto familiare, in rispetto per le donne, in amore appassionato per i figli, in protezione per tutta la tribù, in ospitalità per lo straniero.
Il loro bastone patriarcale è uno scettro di equità.
Quando Jacob, a Bethel, vide una scala con Elohim al sommo e gli angeli che salgono i suoi gradini, si riconosce sotto la forma popolare un riassunto giudaico della visione di Hermes e della dottrina dell’evoluzione discendente e ascendente delle anime.
un fatto storico accadde realmente, si tratta in un incontro tra Abraham e un suo confratello iniziato. Dopo aver fatto la guerra ai re di Sodoma e di Gomorra, Abraham va a rendere omaggio a Melchisedec (re di Salem). Questo re risiede in una fortezza che sarà più tardi Gerusalemme.
Ecco dunque un re di Salem, che era prete dello stesso Dio di Abraham. Questi lo tratta da superiore, da maestro, e comunica con lui sotto le specie del pane e del vino nel nome di Elohim, ciò che nell’antico Egitto era un segno di comunione fra iniziati (molte usanze che i Cattolici fanno proprie, in realtà, appartenevano all’antico culto degli egizi o dei druidi).
V’era dunque un legame di fratellanza, v’erano segni di riconoscimento e uno scopo comune per tutti gli adoratori di Elohim, dal fondo della Caldea fino alla Palestina, forse fino ad alcuni santuari d’Egitto.
Così fra il trono alato d’Assiria e la Sfinge d’Egitto, che da lontano osservano il deserto; fra la tirannia schiacciante e il mistero impenetrabile dell’iniziazione, restano le tribù elette degli bramiti, degli Jacobite e dei Beni-Israel.
Esse sfuggono le feste sfrenate di Babilonia, passano volgendo il capo alle orge di Moab, agli orrori di Sodoma e Gomorra e al culto mostruoso di Baal.


Che questi uomini abbiano avuto avvertimenti interiori o rivelazioni spirituali sotto forma di sogni o anche di visioni allo stato di veglia, non è in nulla contrario alla scienza esoterica e alla legge psichica universale, che regge le anime e i mondi (alla solita maniera accadde ai grandi scienziati, o coloro che fecero grandi scoperte). Questi fatti hanno preso nel racconto biblico la forma ingenua di visite di angeli ospitati sotto la tenda.
Inferiori tanto ai magi di Caldea che ai preti egizi nella scienza positiva, essi li sorpassarono probabilmente per altezza morale e per quella larghezza d’anima che porta con sé una vita errante e libera. Per essi l’ordine sublime, che Elohim fa regnare nell’universo, si traduce nell’ordine sociale del culto familiare, in rispetto per le donne, in amore appassionato per i figli, in protezione per tutta la tribù, in ospitalità per lo straniero.
Il loro bastone patriarcale è uno scettro di equità.
Quando Jacob, a Bethel, vide una scala con Elohim al sommo e gli angeli che salgono i suoi gradini, si riconosce sotto la forma popolare un riassunto giudaico della visione di Hermes e della dottrina dell’evoluzione discendente e ascendente delle anime.
un fatto storico accadde realmente, si tratta in un incontro tra Abraham e un suo confratello iniziato. Dopo aver fatto la guerra ai re di Sodoma e di Gomorra, Abraham va a rendere omaggio a Melchisedec (re di Salem). Questo re risiede in una fortezza che sarà più tardi Gerusalemme.
Ecco dunque un re di Salem, che era prete dello stesso Dio di Abraham. Questi lo tratta da superiore, da maestro, e comunica con lui sotto le specie del pane e del vino nel nome di Elohim, ciò che nell’antico Egitto era un segno di comunione fra iniziati (molte usanze che i Cattolici fanno proprie, in realtà, appartenevano all’antico culto degli egizi o dei druidi).
V’era dunque un legame di fratellanza, v’erano segni di riconoscimento e uno scopo comune per tutti gli adoratori di Elohim, dal fondo della Caldea fino alla Palestina, forse fino ad alcuni santuari d’Egitto.
Così fra il trono alato d’Assiria e la Sfinge d’Egitto, che da lontano osservano il deserto; fra la tirannia schiacciante e il mistero impenetrabile dell’iniziazione, restano le tribù elette degli bramiti, degli Jacobite e dei Beni-Israel.
Esse sfuggono le feste sfrenate di Babilonia, passano volgendo il capo alle orge di Moab, agli orrori di Sodoma e Gomorra e al culto mostruoso di Baal

Era Moderna, il Rinascimento

Ciò che si definisce l’ombra della storia non è il Medioevo, bensì il Rinascimento.
Solo l’arte si innalzò, portando a nuove scoperte. Con l’avvento della stampa nasce la più potente comunicazione di massa, Copernico e Cristoforo Colombo, Michelangelo… e poi…
Con l’avvento delle indulgenze da parte della chiesa, il malessere delle inquisizioni, i protestanti e le loro persecuzioni, lo sterminio di intere popolazioni (nativi americani, ebrei e arabi), i regimi totalitari, il commercio degli schiavi, le persecuzioni, guerre ed epidemie, le “streghe” al rogo, violenza e fame, povertà e sporcizia, corruzione, nette differenze sociali, mera ignoranza e poca spiritualità.
Questo era il Rinascimento e NON IL MEDIOEVO.

Isotta Franci


Gli anni che vanno dalla seconda metà del Quattrocento a tutto il Cinquecento costituiscono l’«età d’oro» del Rinascimento artistico italiano: i pittori sono intenti alle loro tele, o ad affrescare chiese o pareti di palazzi patrizi; gli architetti creano facciate stupende, rifanno piazze, innalzano monumenti; gli scultori scalpellano il marmo traendone fuori statue che paion vive. Prima che l’Italia venga invasa dagli eserciti stranieri, dà il massimo della sua genialità, segna il punto più alto della sua storia. Non c’è museo al mondo che non raccolga opere del nostro Rinascimento: ne sono pieni il Louvre a Parigi, il Prado a Madrid, l’Ermitage a Leningrado, la National Gallery a Londra. Roma, Firenze e Milano sono, nell’ordine, i centri che si accaparrano la maggior parte degli artisti, ma si può affermare che quasi ogni città italiana ha avuto i suoi pittori e scultori che vi hanno lavorato, e molti mecenati che li hanno ricompensati.
Ma pensare al Rinascimento solo come all’epoca radiosa della cultura, del genio, dei grandi artisti, dei pittori e delle splendide Corti, sarebbe errato. Essa è anche un’epoca dura, cupa, buia, crudele, selvaggia e disumana, un’epoca di tradimenti ed assassini. È contemporaneamente un’epoca di grande splendore e di profonda oscurità.
Molti Signori eccellono, più che per il mecenatismo e per le opere di pace, per le imprese guerresche che compiono, per la tirannia del dominio che impongono sulla loro città, per le crudeltà che commettono. Sono i Carraresi, Signori di Padova; i Malatesta, Signori di Rimini; i Riario, di Forlì; i Borgia, che a costoro contendono il dominio della Romagna; i Baglioni e gli Oddi, famiglie rivali a Perugia. Tutti costoro destano ancor oggi il nostro stupore per la loro diabolica abilità nell’ordire congiure, tradimenti, assassini ed ogni altra efferatezza.
Il desiderio di potere, la brama di ricchezze, le follie ambiziose rendono principi e governanti senza scrupoli. Essi usano tutti i mezzi per disfarsi dei nemici: tranelli, agguati, avvelenamenti. La vita dei Signori diviene incerta, insicura, pericolosa: ciascuno sospetta del vicino, dell’amico, anche del fratello… non si ha pietà per nessuno.

I castelli dei Signori sono un vero prodigio di tecnica, pieni come sono di trabocchetti: pavimenti che sprofondano improvvisamente, facendo precipitare il malcapitato in bui sotterranei o sulla punta di spade e alabarde; corridoi segreti, pareti con porte e armadi celati dietro un innocente quadro, lampadari che un gesto del Signore fa cadere sull’incauto aggressore.
Nell’ombra lavorano i sicari, i terribili uomini che per una borsa di danaro sonante eliminano silenziosamente con la «sica», il corto pugnale che portano al fianco, o col veleno qualche scomodo testimonio o chi osa opporsi alla volontà o ai capricci del Signore.
Fare il conto delle pugnalate è impresa difficile, ci vorrebbe un intero libro. Nel Ducato di Milano, Giovanni Maria Visconti muore assassinato, e la stessa fine fa Galeazzo Maria Sforza. Ludovico il Moro fa uccidere il consigliere della cognata, Cicco Simonetta, che ha già tentato, a sua volta, di uccidere il Moro. Bona di Savoia, cognata del Moro, abita nel grande Castello di Milano; ma s’è fatta costruire una torre ben munita, e ci s’è ritirata per paura che il cognato, che abita poco distante da lei, le faccia la pelle.
A Firenze, Giuliano de’ Medici muore pugnalato in chiesa. A Napoli, la Regina Giovanna, che ha fatto uccidere più d’un amico, manda a morte anche il marito, Andrea d’Ungheria… ma Giovanna finirà i suoi giorni per mano di Carlo Durazzo.
Anche le alleanze fra Stati sono incerte: si passa al nemico appena comincia a vincere, e si combatte l’amico d’una volta.

Eserciti regolari non ne esistono: (nasce il soldato, il mercenario – nel medioevo il guerriero, il cavaliere aveva dei sani princìpi e valori) poiché il Signore combatte per la sua gloria e la sua ambizione, non può richiedere l’aiuto dei cittadini che non glielo darebbero e che, del resto, non sono più abituati alle armi. Le fanterie comunali, costituite da cittadini volontari che si stringevano attorno al Carroccio o ad un altro simbolo del Comune, con il moltiplicarsi delle guerre hanno ceduto il posto alle compagnie di ventura costituite da «professionisti della guerra»: sono bande armate che vengono «affittate» oggi da uno Stato e domani dall’altro (un po’ come la Legione Straniera odierna), e a capo delle quali vi sono condottieri abili che passano la vita sul campo di battaglia. La prima grande compagnia è quella di Guarnieri di Urslingen; in Italia capitanano compagnie di ventura Alberico da Barbiano, Braccio da Montone, Muzio Attendolo Sforza, Bartolomeo Colleoni, Francesco Bussone detto il Carmagnola.
Chi vuol fare la guerra non ha che da rivolgersi a queste «compagnie», che sono composte di soldati provenienti da ogni parte d’Europa: non combattono per una patria, ma per chi li paga meglio, e passano con indifferenza dall’una all’altra parte.
Le «compagnie», è ovvio, presentano molti rischi: i mercenari non danno affidamento, disertano spesso, per farli combattere non c’è che da promettere un ricco bottino. Dovunque passano, i soldati di ventura portano distruzione e rovina: appena si conquista una città, si va di casa in casa, si saccheggia, si rapina, si uccide. Alessandro Manzoni ne offre una colorita descrizione nel XXX capitolo dei Promessi sposi: «Dopo un’altra po’ di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co’ loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne’ paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d’ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un’aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l’elemosina». Il mercenario è in genere feroce: non combatte per un ideale, cerca solo di far soldi e di rischiare la vita il meno possibile.

Simone Valtorta

Era Moderna, il Rinascimento

Ombra o rinascita?

Ciò che si definisce l’ombra della storia non è il Medioevo, bensì il Rinascimento.
Solo l’arte si innalzò, portando a nuove scoperte. Con l’avvento della stampa nasce la più potente comunicazione di massa, Copernico e Cristoforo Colombo, Michelangelo… e poi…
Con l’avvento delle indulgenze da parte della chiesa, il malessere delle inquisizioni, i protestanti e le loro persecuzioni, lo sterminio di intere popolazioni (nativi americani, ebrei e arabi), i regimi totalitari, il commercio degli schiavi, le persecuzioni, guerre ed epidemie, le “streghe” al rogo, violenza e fame, povertà e sporcizia, corruzione, nette differenze sociali, mera ignoranza e poca spiritualità.
Questo era il Rinascimento e NON IL MEDIOEVO.

Isotta Franci


Gli anni che vanno dalla seconda metà del Quattrocento a tutto il Cinquecento costituiscono l’«età d’oro» del Rinascimento artistico italiano: i pittori sono intenti alle loro tele, o ad affrescare chiese o pareti di palazzi patrizi; gli architetti creano facciate stupende, rifanno piazze, innalzano monumenti; gli scultori scalpellano il marmo traendone fuori statue che paion vive. Prima che l’Italia venga invasa dagli eserciti stranieri, dà il massimo della sua genialità, segna il punto più alto della sua storia. Non c’è museo al mondo che non raccolga opere del nostro Rinascimento: ne sono pieni il Louvre a Parigi, il Prado a Madrid, l’Ermitage a Leningrado, la National Gallery a Londra. Roma, Firenze e Milano sono, nell’ordine, i centri che si accaparrano la maggior parte degli artisti, ma si può affermare che quasi ogni città italiana ha avuto i suoi pittori e scultori che vi hanno lavorato, e molti mecenati che li hanno ricompensati.
Ma pensare al Rinascimento solo come all’epoca radiosa della cultura, del genio, dei grandi artisti, dei pittori e delle splendide Corti, sarebbe errato. Essa è anche un’epoca dura, cupa, buia, crudele, selvaggia e disumana, un’epoca di tradimenti e assassini. È contemporaneamente un’epoca di grande splendore e di profonda oscurità.
Molti Signori eccellono, più che per il mecenatismo e per le opere di pace, per le imprese guerresche che compiono, per la tirannia del dominio che impongono sulla loro città, per le crudeltà che commettono. Sono i Carraresi, Signori di Padova; i Malatesta, Signori di Rimini; i Riario, di Forlì; i Borgia, che a costoro contendono il dominio della Romagna; i Baglioni e gli Oddi, famiglie rivali a Perugia. Tutti costoro destano ancor oggi il nostro stupore per la loro diabolica abilità nell’ordire congiure, tradimenti, assassini ed ogni altra efferatezza.
Il desiderio di potere, la brama di ricchezze, le follie ambiziose rendono principi e governanti senza scrupoli. Essi usano tutti i mezzi per disfarsi dei nemici: tranelli, agguati, avvelenamenti. La vita dei Signori diviene incerta, insicura, pericolosa: ciascuno sospetta del vicino, dell’amico, anche del fratello… non si ha pietà per nessuno.

I castelli dei Signori sono un vero prodigio di tecnica, pieni come sono di trabocchetti: pavimenti che sprofondano improvvisamente, facendo precipitare il malcapitato in bui sotterranei o sulla punta di spade e alabarde; corridoi segreti, pareti con porte e armadi celati dietro un innocente quadro, lampadari che un gesto del Signore fa cadere sull’incauto aggressore.
Nell’ombra lavorano i sicari, i terribili uomini che per una borsa di danaro sonante eliminano silenziosamente con la «sica», il corto pugnale che portano al fianco, o col veleno qualche scomodo testimonio o chi osa opporsi alla volontà o ai capricci del Signore.
Fare il conto delle pugnalate è impresa difficile, ci vorrebbe un intero libro. Nel Ducato di Milano, Giovanni Maria Visconti muore assassinato, e la stessa fine fa Galeazzo Maria Sforza. Ludovico il Moro fa uccidere il consigliere della cognata, Cicco Simonetta, che ha già tentato, a sua volta, di uccidere il Moro. Bona di Savoia, cognata del Moro, abita nel grande Castello di Milano; ma s’è fatta costruire una torre ben munita, e ci s’è ritirata per paura che il cognato, che abita poco distante da lei, le faccia la pelle.
A Firenze, Giuliano de’ Medici muore pugnalato in chiesa. A Napoli, la Regina Giovanna, che ha fatto uccidere più d’un amico, manda a morte anche il marito, Andrea d’Ungheria… ma Giovanna finirà i suoi giorni per mano di Carlo Durazzo.
Anche le alleanze fra Stati sono incerte: si passa al nemico appena comincia a vincere, e si combatte l’amico d’una volta.

Eserciti regolari non ne esistono: (nasce il soldato, il mercenario – nel medioevo il guerriero, il cavaliere aveva dei sani princìpi e valori) poiché il Signore combatte per la sua gloria e la sua ambizione, non può richiedere l’aiuto dei cittadini che non glielo darebbero e che, del resto, non sono più abituati alle armi. Le fanterie comunali, costituite da cittadini volontari che si stringevano attorno al Carroccio o ad un altro simbolo del Comune, con il moltiplicarsi delle guerre hanno ceduto il posto alle compagnie di ventura costituite da «professionisti della guerra»: sono bande armate che vengono «affittate» oggi da uno Stato e domani dall’altro (un po’ come la Legione Straniera odierna), e a capo delle quali vi sono condottieri abili che passano la vita sul campo di battaglia. La prima grande compagnia è quella di Guarnieri di Urslingen; in Italia capitanano compagnie di ventura Alberico da Barbiano, Braccio da Montone, Muzio Attendolo Sforza, Bartolomeo Colleoni, Francesco Bussone detto il Carmagnola.
Chi vuol fare la guerra non ha che da rivolgersi a queste «compagnie», che sono composte di soldati provenienti da ogni parte d’Europa: non combattono per una patria, ma per chi li paga meglio, e passano con indifferenza dall’una all’altra parte.
Le «compagnie», è ovvio, presentano molti rischi: i mercenari non danno affidamento, disertano spesso, per farli combattere non c’è che da promettere un ricco bottino. Dovunque passano, i soldati di ventura portano distruzione e rovina: appena si conquista una città, si va di casa in casa, si saccheggia, si rapina, si uccide. Alessandro Manzoni ne offre una colorita descrizione nel XXX capitolo dei Promessi sposi: «Dopo un’altra po’ di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co’ loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne’ paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d’ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un’aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l’elemosina». Il mercenario è in genere feroce: non combatte per un ideale, cerca solo di far soldi e di rischiare la vita il meno possibile.

Simone Valtorta

Presentati (articolo di esempio)

Questo è un articolo di esempio, pubblicato originariamente come parte della Blogging University. Abbonati a uno dei nostri dieci programmi e inizia bene il tuo blog.

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Non sei incatenato a nessuna di queste cose: uno degli aspetti meravigliosi dei blog è il modo in cui si evolvono costantemente a mano a mano che impariamo, cresciamo e interagiamo con gli altri, ma è bene sapere dove e perché hai iniziato e formulare i tuoi obiettivi potrebbe ispirarti qualche altro articolo.

Non riesci a pensare a come iniziare? Scrivi la prima cosa che ti viene in mente. Anne Lamott, autrice di un libro che amiamo sullo scrivere, dice che devi darti il permesso di scrivere una “prima bozza scadente”. Anne fa esattamente il punto: inizia a scrivere e preoccupati di modificarlo solo in un secondo momento.

Quando sei pronto per pubblicare, assegna al tuo articolo da tre a cinque tag che descrivano il focus del tuo blog: scrivere, fotografia, fiction, genitorialità, cibo, automobili, film, sport, qualsiasi cosa. I tag aiuteranno le persone che si interessano di questi argomenti a trovarti nel Lettore. Assicurati che uno dei tag sia “zerotohero”, in modo che anche altri nuovi blogger possano trovarti.

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