Civiltà micenea e civiltà greca

La Grecia dell’Età Oscura (suddivisa in tre fasi) non rappresenta un’unità dal punto di vista culturale: in ogni ambito della cultura materiale riscontriamo un accentuato particolarismo. È necessario innanzitutto operare una netta distinzione fra le regioni che gravitano verso l’Egeo e quelle che compongono la cosiddetta koinè occidentale, all’interno della quale, partendo da nord, l’Etolia, le isole ioniche, il Peloponneso occidentale (Acaia, Elide, Messenia) e la Laconia. I due settori del mondo greco, che possiamo definire “orientale” e “occidentale”, seguono in questi secoli un autonomo sviluppo culturale, che non esclude comunque l’esistenza di contatti reciproci, anche se limitati.
Nel greco miceneo gli abitanti venivano definiti «wa-tu», le comunità rurali «da-mo», i due termini definiscono realtà distinte sia a livello politico che “urbanistico”. È a livello di “da-moi” che vanno ricercati gli elementi di continuità/discontinuità fra la realtà politico-sociale micenea e la Grecia delle póleis. La fine dell’Età del Bronzo segna in Grecia il “ritorno” a un sistema insediativo centrato su villaggi indipendenti, che praticano forme differenti di economia di sussistenza in relazione al contesto ambientale.
Gli insediamenti dell’Età Oscura possono essere suddivisi in due gruppi in base alla loro articolazione interna: da una parte abbiamo piccoli villaggi costituiti da un unico nucleo, come Nichoria e Llefkandi, con una popolazione che oscilla da qualche decina a poche centinaia di abitanti; dall’altra esistono abitati di maggiore estensione, come Atene, Argo, e Corinto, che rappresentano dei veri e propri sistemi di piccoli villaggi sparsi, separati da spazi aperti, ciascuno con una propria area di sepoltura. Dal punto di vista urbanistico questi abitati rispondono al tipo di insediamento “per villaggi” che, secondo Aristotele, avrebbe preceduto la nascita delle pólis. Un caso a parte è rappresentato da Cnosso: pur rientrando, per estensione e numero di abitanti, nel secondo gruppo, esso costituisce già in questa fase un nucleo protourbano.
Per quanto riguarda le abitazioni, gli edifici hanno di norma pianta absidata: presentano lo zoccolo delle pareti in pietra, mentre l’alzato è in mattoni crudi con intelaiatura lignea o in incannucciata rivestita di fango. Abitazione in pietra a pianta rettangolare o quadrata sono attestate, oltre che a Creta, nelle Cicladi e a Volo di Tessaglia. Quindi, l’ottavo secolo non rappresenta, dal punto di vista urbanistico, una “rivoluzione”; le pólis mantengono infatti ancora a lungo l’aspetto di villaggi.
La ricostruzione della storia sociale e politica nei secoli di transazione dal palazzo alla pólis è il risultato di una complessa integrazione dei dati ricavabili dall’analisi delle fonti scritte, dalla documentazione archeologica e dal confronto con i modelli elaborati dall’antropologia sociale. Gli archivi dei palazzi e i poemi omerici documentano due momenti di un lungo processo che resta in massima parte avvolto nell’oscurità. La società descritta nell’Iliade e nell’Odissea riflette una realtà storica che viene attualmente inquadrata dalla maggioranza degli studiosi o in una fase avanzata dell’Età Oscura. La realtà politica della Grecia in questo periodo si presenta dunque meno omogenea di quanto non appaia nei poemi omerici; una variabilità che è segno di un mondo in transizione, per così dire i secoli “oscuri” della storia della pólis, che non emerge all’improvviso nell’ottavo secolo come esito di una “rivoluzione” sociale, ma ha le sue origini nella multiforme realtà politico-sociale dei secoli precedenti.
Giunti all’alba dell’ottavo secolo possiamo considerare ormai conclusa la lunga transizione fra civiltà micenea e civiltà greca. Gli esiti finali del processo storico iniziato con la caduta dei palazzi ci hanno portato molto lontano dai loro antecedenti nell’età del Bronzo. La società in cui vivono gli eroi omerici riflette la realtà storica dei secoli di passaggio dal palazzo alla pólis, con tutta probabilità di un momento avanzato. Mura poderose e tombe monumentali dovevano suscitare ammirazione e stupore già nei Greci dell’Età Oscura, ma è nell’ottavo secolo che esse diventano oggetto di rinnovato interesse: le testimonianze del passato vengono investite di significati nuovi e integrate nella cultura “contemporanea”.
La più grande eredità che l’Età Oscura consegnerà alle future generazioni dell’Ellade è affidata al canto poetico: anonime generazioni di aedi trasmisero un patrimonio di racconti, miti e conoscenza che confluiranno nell’Iliade e nell’Odissea, la prima biblioteca del sapere della Grecia antica.

La Grecia arcaica, l’età palaziale e l’Età Oscura

Il passaggio fra II e del I millennio a.C. è segnato in Grecia dalla transizione fra due sistemi politici profondamente diversi. La Grecia micenea era suddivisa in una serie di regni regionali, ciascuno gestito attraverso una complessa struttura amministrativa con al vertice il centro palaziale: all’interno di una cittadella fortificata sorgeva il palazzo, residenza del sovrano e sede dell’amministrazione centrale.
La transazione tra civiltà micenea e civiltà greca è un processo che si compie nell’arco di alcuni secoli e che interessa al tempo stesso la sfera politica, sociale e culturale nel senso più ampio del termine. La distruzione dei palazzi micenei e il conseguente collasso del sistema politico ed economico centralizzato furono così repentini che sembrano rientrare, almeno in partenza, all’interno della historie événementielle. La cesura nelle forme di gestione del potere fu netta, e a essa seguì, nell’arco di pochissime generazioni, una radicale trasformazione della società. Anche se singoli elementi della organizzazione politica della Tarda Età del Bronzo sembrano sopravvivere nei secoli seguenti, come testimonia per esempio l’origine micenea del termine utilizzato nel greco omerico per designare la più alta forma di potere personale (basileùs), essi hanno subito un lungo processo di trasformazione al termine del quale si trovano inseriti un sistema politico-sociale radicalmente diverso. È nell’ambito della cultura materiale e della produzione artigianale, così come in un patrimonio di credenze religiose e pratiche rituali, legate al culto degli dei alla cura dei defunti, che i tempi del cambiamento furono meno rapidi, ed è possibile riscontrare anche fenomeni di preesistenza sul lungo periodo. Sarà solo fra la fine del XII e gli inizi del XI secolo che il mondo miceneo attraverserà l’ultima e definitiva crisi, che porterà rapidamente al definitivo esaurimento della civiltà dell’Età del Bronzo e all’inizio di una nuova era. Si apre così per la Grecia un periodo di circa tre secoli (XI-IX), la cosiddetta Età Oscura; a lungo considerata dagli storici come una fase di stagnazione dal punto di vista culturale, alla quale avrebbe posto fine al “Rinascimento” dell’ottavo secolo, questi secoli sono attualmente considerati fondamentali nella definizione della identità politica e culturale dei Greci del primo millennio.
È possibile ipotizzare per la distruzione dei palazzi cause di natura diversa: una serie di disastrosi terremoti, teoria questa che sembra godere di crescente favore; tensioni e conflitti interni al mondo miceneo, sfociati in scontri fra diversi centri; una sollevazione armata contro l’autorità centrale da parte della popolazione, gravata da tasse e corvée. L’intero sistema politico ed economico dei regni micenei entrò irrimediabilmente in crisi. L’età dei palazzi era giunta alla sua definitiva conclusione, e con essa si chiude un ciclo nella storia politica del mondo greco.
La distruzione dei principali centri politici fece sentire i suoi effetti negativi sull’intero sistema insediato della Grecia micenea: numerosi abitati furono distrutti o comunque abbandonati e si segnala in termini generali una drastica riduzione della popolazione. In attesa di un potere centrale cessano le grandi realizzazioni architettoniche; scompare la scrittura, nata per rispondere alle esigenze dell’amministrazione centralizzata, e tutte le espressioni artistiche che possiamo definire “palaziali”, come la pittura parietale.
La “catastrofe” non interessò allo stesso modo tutto il mondo miceneo; a essere meno colpite furono innanzitutto le aree non direttamente sottoposte al controllo di un’autorità palaziale, che in alcuni casi conoscono una fase di prosperità, accompagnata da un aumento della popolazione, a seguito dell’arrivo dei profughi dalle regioni più devastate. In Argolide i principali centri di potere, Micene, Midea e Tirinto, riescono a riprendersi dalla crisi: delle tre città è Tirinto a godere della maggiore prosperità nella fase post-palaziale, forse a seguito di un fenomeno di sinecismo (coabitare, esistere in una stessa città o casa) della popolazione che viveva dispersa nelle campagne.
Se pur di rinascita si tratta, essa fu comunque di breve durata. Il Tardo Ellenico si chiude in un clima di generale instabilità: un nuovo orizzonte di distruzioni e abbandoni determinano un’ulteriore drastica riduzione della popolazione e un rapido e, questa volta inarrestabile, declino culturale.
Questo segna il definitivo esaurimento della tradizione culturale micenea. La Grecia entra in quello che è considerato uno dei periodi più oscuri della storia, che dalla prima metà dello XI secolo si protrae sino alla fine del IX secolo. La transazione dal palazzo alla pólis avviata nella fase post-palaziale non si interrompe tutta nel corso dell’Età Oscura. Definitivamente tramontata è l’immagine di un Egeo piombato in un oscuro Medioevo, isolato dal resto del Mediterraneo e all’interno del quale le comunicazioni e gli scambi erano ridotti al minimo. Di conseguenza anche il concetto di “rinascita” politica e culturale dell’ottavo secolo deve essere rivisto e inserito in una prospettiva di lunga durata. La costruzione di questi secoli è affidata all’analisi delle sole testimonianze materiali, proficuamente integrate dalla lettura critica dei poemi omerici. L’Età Oscura è convenzionalmente suddivisa in fasi che riflettono la successione degli stili ceramica in Attica (Submiceneo, Protogeometrico, Geometrico Antico-Madio), che rappresenta in questi secoli, assieme a Creta, la regione culturalmente più dinamica e attiva.
La diffusione della tecnologia del ferro, recepita da Cipro agli inizi dell’Età Oscura, offrì alla Grecia parziale autonomia in un settore vitale come quello dell’approvvigionamento dei metalli, gravemente penalizzato dalla crisi internazionale che aveva paralizzato i commerci, in particolare le importazioni di rame e stagno dal Vicino Oriente.
In conclusione, l’ottavo secolo non segnò una cesura storica, ma è in questa fase che si avverte nettamente l’effetto cumulativo di una serie di processi storici di lunga durata avviati nei secoli precedenti. Dal punto di vista culturale, si assiste alla nascita dell’architettura templare, alla definizione di un nuovo linguaggio figurativo e al ritorno della scrittura, con l’adozione dell’alfabeto fonetico fenicio.

Roma nell’età Imperiale

La Roma Imperiale ebbe inizio il 27 a.C. (27 a.C. – 14 d.C.), con Augusto viene fatta iniziare l’età imperiale e sarà lui il protagonista della scena politica romana, segnando il passaggio dal sistema repubblicano a un regime di fatto monarchico. Augusto non sopprime le magistrature repubblicane, ma ne limita i poteri decisionali: il princeps è il vero signore di Roma.
L’impero romano è una struttura alquanto complessa: centro e periferie sono strettamente connessi
da un efficiente apparato burocratico e amministrativo, del quale fanno parte anche i rappresentati dirigenti provinciali.
Grazie alla Pax Romana, l’impero prospera; ma che cos’era questa Pax Romana?
Detta anche Pax Augustea (entrata in vigore proprio nel periodo di Augusto), indicava la condizione di pace complessiva che caratterizzò i primi due secoli dell’impero. Fu un periodo di assenze di guerre di grandi dimensioni e di una stabilità politica. L’espressione Pax Romana o Pax Augustea aveva una marcata funzione ideologica e propagandistica, serviva cioè a giustificare e legittimare, agli occhi dei popoli dell’Impero il dominio di Roma. lo stato fu riorganizzato e diviso in regiones (Italia) e province (al di fuori della penisola). Lo scopo del princeps era dimostrare l’avvento di un cambiamento epocale che, chiusa la stagione delle guerre civili, era iniziata una nuova età dell’oro, segnata dalla pace e dalla prosperità.
A Roma non esisteva un principio dinastico per la successione, si diventava imperatori per via ereditaria, per adozione, con la forza e con l’approvazione del senato. Anche se con Augusto e i suoi successori detengono un potere quasi “assoluto”, in virtù di una somma di poteri individuali praticamente straordinari: l’imperium proconsolare su tutte le province (che dà diritto al comando di tutte le legioni), l’essere princeps del senato, ossia presidente (e quindi sono a capo dell’assemblea), la potestà tribunizia (essere sacri e inviolabili e avere diritto di veto per qualsiasi decisione presa dal senato), non mancheranno di essere anche la maggiore autorità religiosa.
L’impero è un sistema politico in cui il potere reale si centralizza nelle mani di una sola persona: l’Imperatore. Tale sistema fu inaugurato da Augusto (come già scritto), con l’introduzione della figura dell’Imperatore, il Senato divenne un semplice organo di rinforzo per il potere totalitario.
Il periodo che comprende l’Impero romano venne diviso in Alto Impero e Basso Impero, il primo periodo va dal governo di Augusto a quello di Diocleziano, mentre il secondo periodo comprende la reggenza di Diocleziano fino al declino dell’Impero Romano d’Occidente.
Fra gli anni 14 a.C. e 68 d.C. raggiunsero il potere vari discendenti di Augusto: Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. La continuità dinastica fu interrotta dalla guerra civile che ebbe luogo nell’anno 68, durante il governo dei tre imperatori. Questo primo periodo di crisi dell’Impero fu superato dall’ascesa della dinastia Flavia. Dopo i Flavi subentrarono gli Antoni (Nerva, Traiano, Adriano, Antonio Pio, Marco Aurelio e Comodo). Poi si inaugurò la dinastia dei Severi (Settimo, Caracalla, Macrino, Eliogabalo e Alessandro).
Fu così che il potere assoluto dell’impero incominciò a indebolirsi progressivamente, fino a quando l’unica priorità di Roma fu la difesa delle frontiere dell’Impero dai continui attacchi dei popoli barbari e di quelli che provenivano dell’impero sasanide di Persia. A causa di questi attacchi il potere fu assunto dai militari (Anarchia Militare) che durò circa cinquant’anni. Questi imperatori-soldati avevano come unico scopo la lotta contro il nemico dell’Impero. Il debito che aumentava per sostenere le forze militari indebolì la popolazione, causando di riflesso la perdita dell’identità dell’Impero romano. Effetto di tale decadenza sociale ed economica fu la crisi religiosa, in parte incentivata dall’invasione di nuovi culti orientali.
Nel 284 d.C. una rivolta militare salvò l’Impero, proclamando imperatore Diocleziano. Durante il suo governo si instaurò la Tetrarchia, sistema politico che divideva l’Impero fra due Augusti e due Cesari. Ma il sistema, dopo l’abdicazione di Diocleziano, si dimostrò inefficiente. Iniziarono le persecuzioni dei cristiani da parte di Diocleziano (la Grande Persecuzione), un tentativo di annullare il rischio di invasioni ideologiche esterne.
Da qui si apre il Basso Impero: in questo periodo la capitale dell’Impero fu trasferita a Bisanzio, località che fu ricostruita per volere dell’Imperatore. Dall’otto novembre del 324 (data della sua inaugurazione) Bisanzio assunse il nome di Costantinopoli (città di Costantino).
Ma le lotte si estesero fino a quando Costantino diventò l’unico imperatore d’Occidente e successivamente istituì il Cristianesimo come religione ufficiale.
Con Teodosio l’Impero fu diviso fra i suoi due figli, Arcadio e Onorio, con la conseguente creazione dell’Impero Romano d’Occidente e d’Oriente. Nel 476 “cadde” l’Impero Romano d’Occidente, più che un crollo fu un cambiamento, dove l’Impero verrà traslato a Nord, mentre quello d’Oriente, posteriormente chiamato Impero Bizantino, sopravvisse fino al 1453, data della caduta di Costantinopoli (l’attuale Istanbul – un tempo dell’Impero ottomano fino al 1923).

Roma antica, la repubblica

Alla fine del VI secolo l’ultimo re della dinastia dei Tarquati fu cacciato da Roma; il suo posto venne preso da due magistrati annuali. La datazione del rovesciamento della monarchia, oltre alla data varroniana – 509 a.C. (505 nella cronologia assoluta) – disponiamo di due date assolute indipendentemente dal racconto tradizionale: la dedica del tempio capitolino (508 o 507) e la battaglia di Aricia (504).
Le fonti collegano alla nascita della repubblica due fondamentali innovazioni politiche: il trasferimento dell’imperium regio a due magistrati annuali dotati di pari potere, eletti dai comizi centuriati e chiamati prima praetores (capi) e poi, forse solo dopo il 367 a.C., consules (consiglieri?), e la delimitazione dello stesso imperium per mezzo del principio di provocatio, il diritto del cittadino di essere sottoposto al giudizio del popolo di fronte alla minaccia di una misura coercitiva capitale del magistrato.
Quindi, ricapitoliamo: mentre in età monarchica il potere era attribuito unicamente al re, nella Roma repubblicana venne affidato a due magistrati eletti annualmente dall’intera cittadinanza, riunita dai comizi centuriati, prima chiamati pretori e poi consoli.
Dopo la cacciata di Tarquinio il superbo per opera dei nobili Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino – considerati i primi magistrati della Roma repubblicana – il nome di re divenne infatti sinonimo di sopruso, e accuratamente evitato: l’unico suo uso linguistico fu nella funzione sacerdotale di rex sacrorum, officiante dei pubblici sacrifici.
La composizione del senato (la più autorevole assemblea decisionale dello stato romano) venne trasformata grazie all’inserimento di membri di estrazione plebea, chiamati conscripti (da cui la successiva denominazione dei senatori come patres conscripti). Questo decretò un aspro conflitto tra patrizi e plebei, accadde perché tra di loro ci furono profonde differenze di carattere economico, sociale e religioso (professavano culti differenti). C’è chi ha voluto vedere, ad esempio, nei patrizi i latini che si imposero sull’etnia sabina, cioè i plebei; oppure individuare nei patrizi gli etruschi conquistatori (etruschi erano i re Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo) che sottomisero la componente etnica latino-sabina, riducendola a plebe; ma mancano teorie innovative, che tendono a ridimensionare di molto il ruolo del patriziato in epoca arcaica. Certo è che la lotta che si sviluppò tra patrizi e plebei nelle prime fasi dell’età repubblicana portò alla progressiva abolizione di numerosi privilegi politico-sociali del patriziato. Nel 494 a.C. la secessione della plebe guidata da Menenio Agrippa diede luogo all’elezione dei tribuni della plebe (tribuni plebis).
Dal 367 al 133 a.C. Roma si espanse in Italia e nel Mediterraneo a seguito delle guerre sannitiche e delle guerre puniche. Dopo questi scontri Roma raggiunse una grande compattezza politico-istituzionale e sviluppò una florida economia. Ma tra 133 e 121 a.C. Roma dovette affrontare la questione agraria. Accadde che la piccola proprietà agraria entrò in crisi perché non riusciva più a essere competitiva con le grandi aziende agricole dei patrizi romani. Nonostante i tentativi di riforme democratiche dei fratelli Gracchi, le tensioni sociali si propagarono a Roma.
Nel 107 a.C. il generale Mario riorganizzò le forze militari, da qui partirono altre conquiste.
Furono conquistate la Numidia, Creta, la Siria e, il grande Caio Giulio Cesare prese la Gallia (tra 58 e 50 a.C.).
Nel I secolo a.C. la Repubblica cominciò a cedere. Lo scontro tra chi appoggiava al Senato la fazione dei populares e chi quella degli optimates si inasprì. Tra l’83 e l’82 a.C. la prima guerra civile a Roma vide scontrarsi i populares del generale Mario e gli ottimati del comandante Silla. Quest’ultimo ebbe la meglio e decise di assumere il titolo di dittatore a vita dopo aver eliminato i suoi nemici. I problemi interni non erano stati risolti: ne fu la prova la congiura organizzata contro la repubblica dal senatore romano Catilina e smascherata dall’avvocato Cicerone nel 63 a.C. (interesante è come viene affrontato l’argomento nel libro Gli affari del signor Giulio cesare, Bertolt Brecht).
I comandanti Pompeo, Crasso e Cesare – nonostante le differenze di partito – si unirono nel primo Triunvirato. Questa alleanza ebbe vita breve: morto Crasso, tra 49 e 45 a.C. scoppiò la seconda guerra civile romana in cui furono contrapposte le legioni di Cesare e quelle degli ottimati di Pompeo. Superato il fiume Rubicone nel 49 a.C. e sconfitto Pompeo, Cesare fu nominato dittatore di Roma. Dopo aver compiuto una serie di riforme venne ucciso il 15 marzo del 44 a.C.
Dopo la sua morte Roma affrontò una fase di grave instabilità, Ottaviano (suo figlio) assieme a Marco Aurelio e Marco Emilio Lepido crearono il secondo triunvirato (43 a.C.); rimisero ordine nella repubblica e si spartirono i possedimenti di Roma.
Dopo l’espulsione di Lepido dal triumvirato, Ottaviano divenne il padrone dell’Occidente e Antonio dell’Oriente. Quest’ultimo sposò la regina egizia Cleopatra e iniziò a vivere allontanandosi dagli usi romani. Ottaviano sfruttò lo scontento del Senato nei confronti di Antonio e gli mosse guerra. Nel 31 a.C. Ottaviano sconfisse Marco Antonio nella battaglia di Azio e nel 27 a.C. il Senato affidò tutti i poteri e il titolo di Augusto al figlio di Cesare per evitare una nuova crisi della repubblica.
Da qui nasceva l’impero…
Curiosità: a oggi si sa che l’antica Roma era una città di immigrati, sin dalle origini è stata un crocevia di civiltà (tutto questo si sa grazie alle analisi del DNA da ventinove siti archeologici). Il Dna analizzato è stato raccolto da resti di 127 individui vissuti a Roma e nelle aree vicine del Lazio nel periodo compreso tra 12.000 anni fa e l’Era Moderna. I dati dell’analisi hanno sorpreso gli studiosi che non si aspettavano di trovare una così ampia diversità genetica già al tempo delle origini di Roma. Con la nascita di Roma e il costituirsi dell’Impero Romano, la variabilità genetica si è arricchita ulteriormente, grazie all’arrivo di persone dai diversi territori dell’impero, con una predominanza dalle aree mediterranee orientali e del Vicino Oriente.

Storia della Roma monarchica

La storia dell’Italia tirrenica comincia con l’arrivo dei Greci. La prima colonia greca nel Tirreno, e probabilmente la prima città che sia mai stata fondata dagli Elleni fuori dalla loro patria, sorse nel 770 a.C. sull’isola d’Ischia. Il fatto stesso della sua nascita dimostra che i suoi fondatori – Eubei – conoscevano bene la geografia della regione e le sue risorse, il che implica chiaramente che i loro rapporti con l’Italia erano cominciati molto tempo prima.
I Greci vennero nel Tirreno in cerca dei metalli, rame e ferro, della Sardegna e delle Colline Metallifere. Con sé portavano una cultura sofisticata, di cui troviamo un riflesso nei poemi, grosso modo contemporanei, di Omero. Anche l’adozione da parte degli indigeni della coltura della vite e dell’olio, che faceva parte del modo di vivere greco; l’olio di oliva e il vino, come i vasi geometrici, erano però solo gli elementi materiali della civiltà che si era sviluppata in Grecia nei secoli oscuri, una civiltà i cui tratti fondamentali erano in primo luogo la città-stato e la scrittura. La provenienza greca delle scritture italiche è evidente; altrettanto ovvia sarebbe dunque l’opinione che la città-stato italica sia nata sul modello della polis greca.
La scrittura etrusca, le cui origini risalgono al più, agli anni 730-720, è solo la prima manifestazione all’assorbimento degli influssi intellettuali ellenici da parte dei popoli dell’Italia. È altrettanto evidente e altrettanto notevole che i popoli italici, anche i più aperti alle influenze greche, gli Etruschi e i Latini (i Latini sono indoeuropei), mantennero la loro identità culturale e individuale.
I Romani non accettarono mai la fondamentale aritmetica politica degli alleni: un votante = un voto.
L’apertura delle comunità civiche italiche nei confronti degli stranieri, il fatto che un immigrato di un’altra civiltà ottenesse quasi automaticamente la cittadinanza locale, era in contrasto fragrante con l’esclusività delle polis greche.
Per i Romani (e gli altri latini) l’idea dello Stato e il concetto di cittadinanza si svilupparono diversamente che in Grecia.
Partiamo, ora, dalle origini di Roma: la tradizione sulle sue origini è stata trasmessa in due cicli di leggende. L’uno, troiano-latino, racconta la più antica storia dei Latini in un particolare della loro dinastia regnante, a partire dall’eroe troiano Enea. La seconda è la storia dei gemelli semidivini, la fondazione di Roma, il ratto delle sabine e l’apoteosi di Romolo.
Tutto questo era, per la Roma di allora, la relazione leggendaria dei seguenti avvenimenti capitali: la fondazione di Roma sul Palatino (747 o 728, affermandosi infine al 753), cioè la nascita della comunità civica dei Romani e l’instaurazione dei rapporti speciali tra essa e il mondo divino; l’unione della città palatina con i Sabini insediati sul Campidoglio e sul Quirinale; la creazione delle fondamentali delle istituzioni politiche della comunità.
Le gesta di Romolo comprendevano, oltre alla fondazione della città e dall’unione con i Sabini, la costituzione delle principali strutture sociali della comunità. Le più importanti erano le trenta curie, Quirites, nel loro insieme costituivano il corpo civico di Roma: popolus Romanus Quiritium (“il popolo romano dei membri delle curie”). Siccome il dio protettore delle curie vegliava sulla totalità dei rapporti tra i Quirites, Romolo – il fondatore della comunità – fu riconosciuto come sua incarnazione.
L’epoca regia.
L’inaudita espansione di Roma regia è fuori dubbio, la prima forma politica fu la monarchia. Si trattava di una monarchia non ereditaria ma elettiva: i sovrani, infatti, erano scelti dal Senato e dai Comizi Curati. La tradizione ci tramanda che i re di Roma furono sette (ma è possibile che siano stati anche di più) e furono Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Lucio Tarquinio.
Il Senato aveva il compito di eleggere il re, ed era formato dagli anziani a capo delle maggiori famiglie, le gentes. Queste ultime erano gruppi di famiglie che discendevano da un unico antenato nobile; i membri di una gens (singolare di gentes) praticavano gli stessi culti, e avevano delle proprie assemblee.
Questo governo monarchico durò circa due secoli e mezzo (dal 753 a.C. al 509 a.C.). Va sottolineato che i primi quattro re furono latini e sabini, gli altri re furono di origine etrusca – l’origine non latina di alcuni dei re di Roma potrebbe stare a dimostrare la sottomissione di Roma ad altri popoli.
All’epoca il popolo romano era diviso in due classi: i patrizi, che discendevano dagli antichi abitanti di Roma e rappresentavano la parte più ricca della popolazione, ed i plebei, la maggior parte della popolazione. Essi erano per la gran parte piccoli agricoltori, artigiani e commercianti stabilitisi a Roma dopo che lo Stato era già stato fondato e quindi erano esclusi dalla vita politica riservata esclusivamente ai patrizi, considerati gli unici veri cittadini romani. Con il passare del tempo, i plebei più agiati si accorsero che con il loro lavoro, essi provvedevano in modo determinante al mantenimento dello Stato e pretesero di poter partecipare con una propria rappresentanza alla politica cittadina. Il re Servio Tullio, accortosi del malcontento che serpeggiava tra i plebei, decise di accogliere le loro istanze, risolvendo in tal modo una situazione che rischiava di degenerare in qualcosa di pericoloso per la stabilità di Roma. Partendo dal principio che ciascun cittadino aveva il diritto di partecipare alla vita pubblica in rapporto alla propria ricchezza, suddivise la popolazione in cinque classi secondo il censo, dividendo poi ogni classe in centurie. L’assemblea popolare risultò quindi formata dalla riunione di tutte le centurie, i comizi centuriati, che prendevano le decisioni riservate inizialmente ai soli patrizi. Poiché nell’assemblea i voti venivano assegnati per centuria, si mise in evidenza lRsquo; inefficacia di questa riforma, in base alla quale veniva concesso alla plebe di partecipare alla vita politica, ma nel contempo lasciava il potere decisionale ai patrizi. Infatti, i voti a disposizione di questi ultimi erano 98, come le loro centurie, mentre alla plebe ne venivano assegnati 90. Ogni classe era obbligata a fornire all’esercito tante centinaia di soldati quante erano le centurie in cui era suddivisa. I soldati dovevano provvedere personalmente al proprio equipaggiamento ed al proprio mantenimento. I plebei nullatenenti erano esclusi dall’ordinamento centuriato e non avevano alcun peso nella politica romana.
Alla fine del VI secolo l’ultimo re della dinastia dei Tarquini fu cacciato da Roma; il suo posto venne preso da due magistrati annuali, i consoli. Secondo la tradizione il colpo di stato fu opera di due parenti strettissimi di Tarquinio il Superbo, il nipote Lucio Giunio Bruto e il cugino Lucio Tarquinio Collatino.

l’Italia rimasta con un piede nel passato

Tra epidemie e disastri ambientali, c’è chi ancora si accusa di essere comunista e fascista…

È vergognoso parlare ancora di fascismo e comunismo nel 2020, soprattutto – riferitami al fascismo – non c’è. Quello che c’è e ci sarà sempre è l’ignoranza, soprattutto quella funzionale, che divaga oggi come la peggiore delle epidemie.
A oggi, ciò che ci governa da decenni, è una dittatura mediatica (tendete a sinistra) che è più classificabile come capitalismo. Questa ipocrisia esiste da tempo.
Sono certa che i miei coetanei e chi è ancora più giovane di me, del comunismo non sappiano niente, anzi, come del fascismo e nazismo ne sono fortunati se ne hanno solo sentito parlare.
I grandi regimi dittatoriali di sinistra, i socialismi del comunismo… dovremmo sentire parlare i russi, i cinesi, i coreani del nord, vietnamiti e tutti coloro che sono morti e hanno fatto guerre per questo regime (Ex Jugoslavia, Afghanistan, Romania – che prima subì un regime di destra e poi quello di sinistra, ancor peggio –, Polonia, etc…).
Ho chiacchierato con chi è stato sotto a queste dittature, dei polacchi mi dissero: «Noi odiamo i russi, quando i nazisti se ne andarono dalle nostre terre – e ci fecero del male… anche tanto –, e arrivarono i russi… be’, rimpiangemmo i nazisti!»
Con questo non voglio scrivere, e non lo farò mai, che sono dalla parte di nazisti e fascisti: no!
Ma sono stanca di vedervi ancora scrivere “sei di sinistra, comunista, fascista, nazista”, soprattutto da gente che non sa fare neanche la svastica giusta.
Il ‘900 è stato caratterizzato da molte dittature sia di destra che di sinistra. Tutto il Novecento è stato significativo a causa delle guerre, genocidi e oppressioni. Il primo diventò la prima dittatura “comunista”, l’URRS (Unione di Repubbliche Socialiste Sovietiche). Pochi anni dopo il secondo e terzo diventarono la più grande dittatura di destra, il Reich di Hitler, la seconda dittatura di destra dopo quella di Mussolini in Italia (poi seguirono Franco, Tito e compagnia bella).
La Fine del colonialismo giunse con la fine della Grande Guerra (quella che erroneamente viene chiamata Prima Guerra Mondiale), un secondo tentativo di conquista e colonizzazione – soprattutto da parte dell’Italia, poi punita dalla Società delle Nazioni (portando l’Italia tra le braccia di Hitler) – infine, la guerra scatenata da Hitler nel 1939 portò alla fine del loro “colonialismo”. Quella guerra segnò anche un passaggio fondamentale per la creazione della seconda dittatura “comunista”, quella di Mao in Cina.
Ma nel trattare le dittature dobbiamo porci due domande.
Perché “dittature socialiste di sinistra”, ovvero, “comuniste”?
Basta leggere le opere di Marx per capire che le dittature in Russia e in Cina non sono mai state di sinistra, cioè comuniste o socialiste, secondo i principi base marxisti. Infatti, Marx aveva escluso specificamente un paese dalle sue teorie sociali. La Russia imperiale era ancora uno stato feudale, e quindi mancava la classe che doveva compiere la sua “rivoluzione”, il proletariato, ovvero la classe operaia. Questo in effetti escludeva anche la Cina che si trovava nelle stesse condizioni.
Inizialmente, nel primo dopoguerra, era la Germania destinata a una ribellione comunista a stampo marxista, ma sia gli stalinisti, i lenisti e i trotzkisti si erano messi in mezzo (questo successe anche con la guerra in Spagna).
Facciamo un passo indietro, Marx va studiato e per farlo ci vogliono delle basi, ma tratteremo solo un punto marxista: una dittatura momentanea per educare il popolo.
Lenin aveva capito che la mancanza del proletariato era un fallo, perché doveva essere quella classe sociale a compiere la “rivoluzione”. Di seguito la sua versione di Marx fu un partito centrale che doveva dirigere la rivolta. Lenin morì troppo presto per sapere cosa avrebbe fatto al potere, ma la struttura lasciata da lui fu la base non solo per la dittatura di Stalin ma anche per la capacità del Politburo, l’organo supremo del Partito Comunista dell’URSS, a mantenere il potere non solo dopo la morte di Stalin, ma per mantenerlo fino allo scioglimento dell’URSS nel 1991. In effetti questo scioglimento fu anche causato dell’incapacità del Politburo di controllare le sempre più pressanti pressioni dalle molte etnie nell’URRS e dalle forze politiche, economiche e finanziarie internazionali
Mao in Cina prese il potere dopo la guerra di liberazione contro i giapponesi e poi una guerra civile orrenda. Naturalmente ebbe l’appoggio dell’URRS e formò la versione cinese del Politburo che permise al partito di mantenere il potere dopo la dittatura maoista fino a oggi.
Indubbiamente queste due dittature non erano marxiste, ma utilizzarono il comunismo per coprire i due culti di personalità verso Stalin e Mao. A prova di ciò, nella versione cinese il “verbo comunista” non erano gli scritti di Marx bensì il “libretto rosso” dei suoi detti, che fu l’ispirazione per la rovinosa “Rivoluzione Culturale” tra il 1966-76.
In tutti e due i paesi i dittatori presumibilmente “comunisti” hanno potuto mantenere il potere con la repressione di qualsiasi forma di critica verso di loro. Non esistono nelle opere di Marx riferimenti all’uso della repressione contro l’opposizione (tranne nella sua famosa dittatura momentanea).
Ci vuole poco, leggendo le opere di Marx a capire che lui sarebbe stato il primo a criticare queste dittature, per questo non erano “comuniste/socialiste”, ma solo e “semplicemente” forme particolari di totalitarismo.

Italia e Germania
Le prima dittature “di destra” furono quella di Mussolini in Italia e quella di Hitler in Germania.
Al contrario della Rivoluzione Russa pochi anni prima, questi governi furono eletti democraticamente per poi prendere il potere assoluto con il pretesto di “emergenze nazionali”. In Italia in seguito all’assassinio del parlamentare socialista Giacomo Matteotti nel 1926 da parte di squadristi fascisti, e in Germania dopo il rogo doloso del Reichstag (l’edificio del parlamento) nel 1933, presumibilmente per ”un complotto comunista”, ma in realtà voluto da nazisti per fornire una scusa a Hitler per impadronirsi del potere.
In entrambi i casi vinsero le elezioni sulle paure della “minaccia comunista/sovietica” (del tutto reale) e le delusioni delle popolazioni dei governi nazionali deboli prima e dopo la Grande Guerra.
Hitler, che prese il potere 11 anni dopo Mussolini, ammirava apertamente il Duce e copiò alcune delle sue tattiche politiche, però c’era una grande differenza tra i due dittatori: sia psicologicamente che politicamente. Benché entrambi erano al centro di culti di personalità, l’egocentrismo di Mussolini, il suo carisma attirò la folla a sé (nascondendo il suo obiettivo); anche se era andato al potere illegalmente. Al contrario, Hitler non nascose mai la base delle sue ambizioni basate sulla supremazia della razza e la paura della minaccia non solo “comunista”, ma particolarmente degli ebrei. Lo scrisse senza indugi nel suo libro Mein Kampf (La mia lotta) redatto durante l’incarcerazione dopo il fallito tentativo di golpe a Monaco di Baviera nel 1923.
Il fallimento del golpe gli fece capire che l’unica strada per il potere passava per la democrazia che disprezzava come “debole”. Il destino fu tale che due democrazie, il Regno Unito e il suo Impero del tempo insieme agli Stati Uniti, più l’odiata URSS staliniana, sarebbero stati i mezzi della distruzione della sua dittatura.
Tutte e due queste dittature di destra caddero in seguito alla guerra che avevano scatenato in nome della loro “supremazia” con costi enormi: perdita di vite, dei loro paesi… E bisogna sempre ricordare che sia Hitler che Mussolini lasciarono i loro paesi in rovina con moltissimi milioni di morti. Allo stesso modo, le varie dittature di destra/militari nel corso del ‘900 hanno lasciato le loro popolazioni più povere dei predecessori democratici che criticavano per le loro “debolezze”.
È interessante notare che in quell’epoca c’era un’altra dittatura di destra in Europa, quella di Francisco Franco in Spagna, che prese il potere dopo una rivolta contro il proprio governo e con l’aiuto di Hitler e Mussolini. Lui rifiutò di entrare in guerra al fianco di Hitler e poté mantenere il suo potere fino alla sua morte nel 1975. È paradossale, ma bisogna far notare che dopo l’incontro con il Caudillo spagnolo, Hitler disse che avrebbe preferito farsi tirare tutti i denti piuttosto che negoziare di nuovo con Franco.
Ma il tempo diede ragione al Caudillo.
Incredibilmente, Franco capì che il suo regime non aveva un futuro dopo di lui, e organizzò il ritorno della famiglia reale dall’esilio per l’eventuale ritorno della democrazia in Spagna dopo la sua morte. Il Caudillo aveva capito quel che Hitler e Mussolini non furono capaci di comprendere e quel che i “nostalgici” del nazismo e fascismo oggi rifiutano di riconoscere: che tutte le dittature di destra sono fallite, non solo in termini economici, ma, ancora più importante, in termini di vite umane come anche in diritti umani.
A oggi, le analisi di esperti, attestano la natura killer seriale di Hitler, Stalin e Mao.

Storia: le epidemie

Oggi scriverò sulle epidemie, storicamente parlando, che hanno caratterizzato il corso degli eventi, e le vite degli esseri umani nella storia. Tali malattie, naturalmente esistenti, dipendevano – e dipendono tutt’ora – dalle condizioni sanitarie e immunitarie del paese in cui la malattia arrivava. Più le condizioni igieniche erano precarie, più le difese immunitarie erano basse… e meno l’alimentazione era presente e varie e più la malattia era pericolosa (tutt’oggi non è cambiato nulla); per esempio, quando i conquistadores giunsero nelle Americhe, hanno letteralmente decimato le popolazioni autoctone, in parte con le armi, ma soprattutto con le malattie.
Sì, perché gli europei erano portatori sani di una serie di malattie per cui gli indios non avevano alcun tipo di difesa immunitaria. Malattie come il morbillo, peste e vaiolo, tifo… ma anche una semplice influenza dava origine a una pandemia.
A volte a dare origine alle epidemie era, e lo è tutt’ora, il contatto con alcune specie animali, anche quello indiretto.
Pensiamo all’epidemia più famosa del passato: la peste bubbonica. Quest’ultima, la peste nera del ‘300, ha causato molti morti, soprattutto in Europa grazie alle città popolose; trasmessa dai ratti agli uomini per mezzo delle pulci.
La peste, inizialmente, era una malattia endemica della Mongolia. Ma con le guerre fra mongoli e cinesi, portata in primis dai genovesi, la malattia ha iniziato a diffondersi, fino ad entrare nelle rotte commerciali con l’Europa.

Il termine ‘epidemia’ è antico, poiché ricorre spesso già negli scritti ippocratici dell’antica Grecia: conformemente alla sua etimologia, esso designa un flagello che si abbatte su un popolo, e in questo senso lo si è utilizzato per più di venti secoli. Tuttavia molte cose sono cambiate dai tempi di Ippocrate e, con l’intervento di numerose discipline, il termine ha anche assunto dei significati derivati; la medicina ha spiegato le cause e alcuni meccanismi di propagazione del flagello, la demografia e la statistica sono in grado di valutarne l’incidenza sulla popolazione, la storia e la sociologia interpretano meglio di prima le cronache dei tempi passati e i comportamenti attuali. Tutte queste scienze hanno contribuito a creare un’immagine nuova delle epidemie.
Enciclopedia Treccani

Dall’articolo preso da Alfred Perrenoud (traduzione di Luisa Orelli), ci racconta perfettamente il susseguirsi degli esempi: “fino alle rivoluzionarie scoperte di Pasteur nel XIX sec. e alle misure di Igiene prese di conseguenza, le circostanze ambientali svolsero un ruolo preponderante nella storia delle epidemie, la cui dinamica dipese quasi esclusivamente dall’equilibrio biologico che si instaurava tra la loro virulenza e trasmissibilità da una parte e lo stato immunologico della popolazione dall’altra. Dal momento che la selezione naturale produce i suoi effetti sia sull’agente infettivo sia sull’ospite che ne è portatore, è possibile immaginare l’esistenza di nicchie ecologiche con un proprio equilibrio microparassitario in continuo mutamento. I complessi patogeni dunque appaiono, si conservano o si disintegrano a seconda che le circostanze riuniscano o separino i loro elementi costitutivi – l’uomo, l’agente patogeno e i suoi vettori – e del realizzarsi o meno delle condizioni di equilibrio con l’ambiente necessario alla loro sopravvivenza. L’ambiente naturale influisce su questi equilibri delicati e instabili attraverso la morfologia del suolo e la topografia (nella misura in cui favoriscono od ostacolano il deflusso delle acque), la vegetazione, la temperatura, il soleggiamento e il tasso di umidità. Per quanto riguarda i fattori umani risultano determinanti l’isolamento, la densità e la mobilità della popolazione, ma esercitano un’influenza anche le strutture agrarie, la distribuzione degli abitati, il modo di costruzione e l’abbigliamento.
Per numerose malattie, le osservazioni biomediche contemporanee mostrano un rapporto causale tra le variazioni di temperatura e la mortalità, avallato anche dalle ricerche storiche. La Peste bubbonica colpisce principalmente d’estate e d’autunno, perdendo vigore con i primi freddi. Il Vaiolo raggiunge il culmine alla fine dell’estate. In generale, l’attività degli agenti patogeni, degli insetti e degli animali vettori di epidemie subisce un rallentamento durante l’inverno. L’influenza dello stato nutrizionale sulla predisposizione all’infezione varia a seconda dei casi. Alcune malattie infettive come il morbillo, la Tubercolosi e in generale tutte le infezioni gastrointestinali e del sistema respiratorio risultano molto sensibili a questo fattore, mentre il legame causale è variabile per l’influenza, la Sifilide (portata dalle americhe) e il Tifo e raro nei casi di peste, vaiolo e malaria.
Oltre ai diversi fattori biologici, naturali, sociali e culturali occorre anche considerare le pratiche e i comportamenti sul piano individuale, che rispecchiano il condizionamento sociale e la mentalità collettiva fatta di credenze, superstizioni e valori morali. L’atteggiamento personale nei confronti della malattia, in particolare l’attitudine ad accettare e utilizzare gli strumenti terapeutici e le misure di prevenzione, dipende dalla percezione della malattia da parte del singolo, dalla volontà di rimanere in vita e dalla consapevolezza delle possibilità di intervento. Tutti questi fattori devono essere presi in considerazione quando si intende determinare il grado di contaminazione, contagio e mortalità di una malattia infettiva. Tale grado e le capacità di reazione della società sono pure correlati alle modalità di trasmissione della malattia, raggruppabili in quattro categorie. Le malattie dell’apparato digerente (febbri tifoidi, dissenterie, diarree, Colera) si trasmettono per via fecale tramite la contaminazione dell’acqua. Le malattie a contagio diretto (morbillo, vaiolo, tubercolosi, difterite, influenza, peste polmonare) si trasmettono da persona a persona mediante le vie respiratorie e l’aria. Il contagio può avvenire solo nel caso di una densità demografica piuttosto elevata; l’incidenza della malattia dipende allora dal numero di persone contaminabili, dal tasso di moltiplicazione dell’agente infettivo, dalla sua rapidità di diffusione e dalle capacità di difesa immunitaria. In regioni discoste o a insediamento sparso, alcune epidemie fortemente contagiose e immunizzanti come il vaiolo possono sparire per mancanza di soggetti contaminabili. Quando la popolazione risulta più numerosa, il decorso è diverso: tutte le malattie infettive che immunizzano coloro che sopravvivono si trasformano in malattie infantili e diventano ricorrenti (come nel caso del vaiolo). La terza categoria è costituita dalle malattie che si trasmettono tramite l’apparato riproduttivo (malattie veneree, sifilide e Aids). Infine vi sono la peste, il tifo e la malaria, malattie dovute a punture e morsi di insetti e animali propagate da pulci, pidocchi, zecche e zanzare, che furono le principali responsabili delle grandi epidemie del passato”.
Infine, è sempre un fattore di igiene e delle nostre difese immunitarie.

Noi tutti ricordiamo della grande epidemia durante la Grande Guerra: l’influenza spagnola, detta anche grande influenza. Questa epidemia fu una banale influenza che però si rivelò incredibilmente mortale, e che fra il 1918 e il 1920 uccise circa 100.000.000 di persone in tutto il mondo. Si chiama spagnola perché i primi a darne notizia furono appunto i giornali spagnoli.
Molte epidemie in passato si svilupparono proprio durante, o dopo una guerra. Tra i molti cadaveri, le scarse condizioni igienico sanitarie e la malnutrizione e soprattutto lo stress, l’essere umano era un ospite particolarmente ambito per microbi e batteri. Soprattutto nei cinque anni di guerra, dove anche gli inverni furono particolarmente rigidi.
Molte delle malattie un tempo ritenute mortali oggi sono state frenate con i vaccini. Ne sono un esempio il morbillo, la poliomielite, la pertosse.
Arriviamo agli anno ’80 (sempre del novecento), sono stati gli anni dell’AIDS, una malattia del sistema immunitario che si trasmette in vari modi: da madre a figlio, attraverso le trasfusioni, o con i rapporti sessuali. Le campagne di prevenzione dell’HIV (il virus che provoca la malattia) hanno coinvolto moltissimi giovani: bisognava sensibilizzare a comportamenti responsabili, ma senza innescare il panico.
Pochi anni fa si è sentito parlare di SARS, un tipo di polmonite proveniente dalla Cina. Oppure dell’Ebola, una febbre emorragica diffusa principalmente nello Zaire, o dell’influenza Suina, che ha avuto il suo primo focolaio in Messico.

Hitler le origini?

L’analisi del Dna di Adolf Hitler, ottenuto da campioni di saliva di trentanove parenti del dittatore nazista, dimostrano che aveva origini ebraiche e nordafricane. In particolare è stato trovato un cromosoma, l’Aplogruppo Eib1b1 – raro tra gli occidantali ma comune nei berberi in Marocco, Algeria e Turnisia, così come tra gli ebrei ashkenaziti e serfarditi. È quanto scrive il Daily Telegraph, citando la ricerca di un giornalista e di uno storico belgi, Jean-Paul Mulders e Marc Vermeeren. L’ Aplogruppo Eib1b1 e’ legato al 10-20% del cromosoma Y degli ashkenaziti e tra l’,8,6 e il 30% dei sefarditi.
In passato era emerso che il padre di Hitler, Alois, fosse il figlio illegittimo di una cameriera di nome Maria Schickelgruber e di un diciannovenne ebreo, noto come Frankenberger.
Nasceva il 20 aprile 1889 a Branau, Adolf Hitler, fondatore del partito Nazional Socialista tedesco che andò al potere vincendo le elezioni del 1933, dando vita al più feroce regime del Novecento (anche se non è proprio così), che scatenò la Seconda guerra mondiale e all’olocausto di sei milioni di slavi, zingari, omosessuali, comunisti ed ebrei.
Per tutta la vita il Führer cercò di nascondere gli eventi della propria infanzia, cambiando la verità a proprio favore e raccontando pubblicamente solo gli episodi che potevano tornargli utili a rafforzare presso il popolo tedesco l’immagine pubblica che voleva a tutti i costi dare di sé.
Hitler da giovane, le origini della sua famiglia: dunque, sono sconosciute ancora oggi e le voci che lo dicono di origini ebraiche sono numerose e anche supportate da ricerche scientifiche.
Himmler, all’insaputa di Hitler, chiese un’indagine per fare l’albero genealogico del capo assoluto del terzo Reich e per appurare che non avesse antenati di razza ebraica, ma il tutto finì in nulla di fatto. A rendere credibile questa ipotesi, già all’epoca, il fatto che il cognome della nonna paterna era Schicklgruber, in genere attribuito agli ebrei naturalizzati. Inoltre, in Europa orientale, soprattutto in Polonia, in Ucraina e in Lituania esistevano famiglie ebree che possedevano cognome “Hiedler” e “Hüttler“; anche se non vi sono prove storiche che queste siano poi emigrate in Austria, e ancora meno che siano legate alla famiglia di Adolf Hitler.
In epoca recente ad avvalorare le dicerie con prove “scientifiche” sono stati due ricercatori belgi (citati all’inizio dell’articolo), il giornalista Jen-Paul Mulders e lo storico Marc Vermeeren, che hanno analizzato il DNA di trentanove parenti, non prossimi, di Hitler, scoprendo la presenza dell’Aplogruppo Eib1b1. Un cromosoma raro tra gli occidentali, ma frequente nei gruppi ebraici askenaziti, cioè dell’Europa del’Est, e dei serfarditi, cioè della Spagna e del Nordafrica, nonché tra i berberi del Marocco, Algeria e Tunisia.
Hitler, dunque, era antisemita nonostante le sue origini, o proprio a causa delle sue origini?
Per Simon Wiesenthal, ingegnere e scrittore austriaco, sopravvissuto all’Olocausto e che dedicò gran parte della sua vita a raccogliere informazioni sui nazisti in latitanza: (svariate ipotesi o dati di fatto) l’astio derivava da una sifilide contratta da Adolf da una prostituta ebrea in giovane età; secondo altre fonti l’odio iniziale era in realtà rivolto al padre, che aveva probabilmente abbandonato lui e la sorella Paula in giovane età; altra ipotesi suggestiva è che l’odio sia dovuto alle cure sbagliate a cui il medico ebreo Eduard Bloch aveva sottoposto sua madre, Klara, malata terminale di cancro. Si suppone anche che, rifiutato all’accademia di belle arti, l’astio era cresciuto per quegli ebrei benestanti che compravano i suoi acquerelli venduti per strada.
Quel che è certo è che l’antisemitismo e l’odio nutrito da Hitler nei confronti degli ebrei non può avere una soluzione unica e semplice. Si tratta di qualcosa di molto articolato e supportato da un intero partito, che poi ha coinvolto anche un intero Paese. È necessario, dunque, contestualizzarlo all’interno delle correnti razziste portate all’estremo nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento, portata al culmine nei primi del Novecento.

I lager

-Punto primo: tra il 1933 e il 1945, la Germania Nazista e i loro alleati crearono più di 40.000 campi di concentramento e altre strutture carcerarie. Questi campi furono usati per diversi scopi, tra i quali i lavori forzati, la detenzione di chi era considerato nemico dello Stato, e l’eliminazione in massa dei prigionieri. Il numero complessivo di queste strutture continua a crescere grazie all’analisi dei dati lasciati dai Nazisti stessi.

-Punto secondo: fin dal suo avvento al potere, avvenuto nel 1933, il regime Nazista aveva cominciato a realizzare una serie di strutture destinate a imprigionare e poi eliminare i cosiddetti “nemici dello Stato”. La maggior parte dei prigionieri, in quel primo periodo, era costituita da cittadini tedeschi: comunisti, socialisti, social-democratici, Rom (Zingari), Testimoni di Geova, omosessuali, e individui accusati di comportamenti ritenuti asociali o devianti. Queste strutture venivano chiamate “campi di concentramento” in quanto servivano a “concentrare” fisicamente i prigionieri in un unico luogo.
Dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, nel marzo 1938, i Nazisti cominciarono ad arrestare gli Ebrei tedeschi ed austriaci e a imprigionarli nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen, in Germania. Dopo i violenti pogrom della Notte dei Cristalli (Kristallnacht) nel novembre del 1938, i Nazisti cominciarono ad arrestare in massa gli Ebrei adulti di sesso maschile, incarcerandoli poi nei campi per un brevi periodi.

-Punto terzo: dopo l’invasione della Polonia, nel settembre 1939, i Nazisti costruirono diversi campi dove i prigionieri erano costretti ai lavori forzati e dove migliaia di loro morirono a causa della fatica, della malnutrizione o dell’esposizione alle intemperie. La direzione e la conduzione dei campi di concentramento erano affidate a unità delle SS. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la rete dei campi nazisti si ampliò rapidamente. In alcuni di essi, i medici nazisti usarono i prigionieri come cavie per i loro esperimenti.
Dopo l’invasione dell’Unione Sovietica, iniziata nel giugno del 1941, i Nazisti aumentarono il numero di campi destinati ai prigionieri di guerra, costruendonli accanto ai complessi già esistenti nella Polonia occupata, come ad esempio quello di Auschwitz. Il campo costruito vicino a Lublino – aperto nell’autunno del 1941 e conosciuto poi come il campo di Majdanek – fu destinato inizialmente a ospitare prigionieri di guerra e diventò un vero e proprio campo di concentramento nel 1943. Migliaia di prigionieri di guerra sovietici furono uccisi a Majdanek, o tramite fucilazione o asfissiati con il gas.

-Punto quarto: I CENTRI DI STERMINIO
Hitler si rese conto che esiliare dalle terre germaniche gli Ebrei non era sufficiente, più occupava i paesi e più si rendeva conto che il “pericolo” ebraico era imminente, quindi non bastò: la soluzione era lo sterminio. Per realizzare la “Soluzione Finale” (il genocidio o l’eliminazione di massa degli Ebrei) i Nazisti costruirono diversi campi di sterminio in Polonia, il paese con la popolazione ebraica più numerosa. I campi di sterminio furono progettati con l’obiettivo di creare un’efficiente macchina per l’eliminazione in massa dei prigionieri. Tra questi, Chelmno fu il primo a essere realizzato e divenne operativo nel dicembre 1941. Qui Ebrei e Rom venivano uccisi con i gas di scarico di furgoni che erano stati appositamente modificati. Nel 1942, i Nazisti misero in funzione i campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka per eliminare gli Ebrei del Governatorato Generale (il territorio all’interno della Polonia occupata dai Tedeschi).
I Nazisti costruirono le camere a gas (cioè ampi vani in cui i prigionieri venivano uccisi con il gas velenoso) per attuare lo sterminio in modo efficiente, ma anche perchè questo metodo rendeva il processo più impersonale per coloro che dovevano portarlo a termine. Il sottocampo di sterminio di Birkenau, che faceva parte del complesso di Auschwitz, era dotato di quattro camere a gas, nelle quali, durante il periodo in cui le deportazioni raggiunsero la maggiore intensità, furono uccisi fino a 6.000 Ebrei al giorno.
Gli Ebrei che vivevano nelle zone occupate dai Nazisti venivano spesso prima deportati in campi di transito, come Westerbork, in Olanda, o Drancy in Francia, per poi proseguire verso i campi di sterminio nella Polonia occupata. I campi di transito rappresentavano, di solito, l’ultima fermata prima della deportazione nei campi di sterminio.
Milioni di persone furono imprigionate e subirono maltrattamenti e abusi nei campi di concentramento nazisti. Sotto la direzione delle SS, i Tedeschi e i loro collaboratori assassinarono, nei campi di sterminio, più di tre milioni di Ebrei. Solo un piccolo numero di coloro che furono imprigionati in quei campi riuscì a sopravvivere.
Quindi, PRIMA CHE ANCHE GLI EBREI (sempre assieme ad altre persone), nei lager, furono torturati e sfruttati un bel alto numero di popolazioni differenti (slavi, zingari, testimoni di Geova, omosessuali, handicappati, ritardati, comunisti e traditori della patria). Con essi, più avanti, furono deportati gli ebrei (visto che la loro espulsione dalla Germania e dagli stati occupati era inutile: questi erano sparsi in tutto il mondo; quindi, anche loro subirono la sorte degli altri.
BASTA DIRE CHE C’ERANO SONO GLI EBREI, BASTA DIRE SOLO DI AUSCHWITZ.
TUTTE LE VITE SPEZZATE VANNO RICORDATE!

La Cina preistorica

Le culture paleolitiche inferiori

L’uomo di Pechino, Sinanthropus pekinensis, (ritrovamento nel 1927) possedeva caratteristiche ominidi: atteggiamento eretto e una considerevole capienza cranica e la capacità di fare strumenti e utensili, ma si distingueva dall’Homo sapiens per la bassa volta cranica e il grosso spessore della parete del cranio e per altre caratteristiche che lo rendevano affine all’Homo erectus di Giava. Dai sedimenti collegati fu evidente che l’uomo di Pechino cacciava cervi e che forse accendeva il fuoco e cuoceva il cibo. Era probabilmente un cannibale, mangiava la carne, il cervello e il midollo della sua razza.
Successivamente furono trovati altri resti umani ancora più antichi, sebbene strettamente collegati all’uomo di Pechino erano più primitivi, in quanto la capienza cranica era considerevolmente inferiore.

Le culture Paleolitiche medie e superiori

Solo un numero limitato di siti del Paleolitico Medio sono stati ritrovati in Cina, i più rilevanti dei quali sono stati quelli della regione dell’Orso e della valle del fiume Fen nello Shanxi. Non è chiaro se la sua fase transitoria si si verificata anche nella Cina del Sud.
Molto di più si conosce del periodo Paleolitico Superiore. Nel Nord sono stati scoperti siti lungo tutta la regione dell’Ordos, cioè nei pascoli settentrionali del Fiume Giallo medio, e sono collettivamente conosciuti come la cultura ordosiana.
La Carovana Superiore a Zhoukoudian conteneva tre resti scheletrici, essi sono stati descritti come mongoloidi “pre-cinesi”, “non-specifici” rassomigliati agli indios d’America (si dice che in principio ci furono quattro razze: nera, bianca, gialla e rossa; i nativi del Nord America e molte delle popolazioni in oriente sono l’unione, la mescolazione della razza gialla e rossa).
Quindi il cinese di oggi potrebbe essersi sviluppato con una discendenza diretta dal popolo della Caverna Superiore presso Zhoukoudian, ma fino a oggi sono mancate le prove per colmare la lacuna tra l’uomo Paleolitico e quello Neolitico della Cina del Nord, che mostra caratteristiche fisiche apparentemente indistinte dal cinese moderno (non è possibile applicare le nuove tecniche scientifiche perché molti resti fossili ritrovati scomparvero , sulla strada per gli Stati Uniti, dopo l’attacco e Pearl Harbour).

L’uomo Neolitico in Cina

Il neolitico è caratterizzato dall’affidarsi alla coltivazione per il cibo, all’uso della ceramica, e dalla creazione di utensili in pietra per mezzo della molatura. Fu dimostrato che in Cina tali culture parallele si svilupparono sulle coste sud-orientali (la cultura di Dapenkeng) e nelle aree del basso Yangzi e del fiume Huai (la cultura di Qinglian’gang).
Nel 1928 fu scavato per la prima volta il sito di Chengziyai, nello Shandong nord-occidentale. Questo villaggio appariva diverso da quelli della cultura Yangshao, per il fatto di essere circondato da mura difensive in terra battuta. Anche il disegno delle case era in qualche modo differente e gli abitanti facevano un uso maggiore degli utensili in pietra levigata. Più sorprendentemente essi producevano un tipo di ceramiche dissimili in modo caratteristico, che era sottile, duro e brunito col nero, con le forme spigolose piuttosto che con i contorni tondeggianti come quelle di Yangshao e che mostrano l’inizio dell’utilizzo della ruota. Tale cultura è diventata nota come Longshan, in seguito a un altro sito nello Shandong.

La dinastia Xia

Grazie alle tecnologie odierne e allo studio, con nuovi macchinari, del DNA e di altre stanze chimiche, si pole dimostrare l’eredità, il tenore di vita, chi è antenato o non. Molti sostengono che non si possa definire la razza dal DNA, fortunatamente non è così. Dalle tecnologie e dai macchinari moderni si possono stabilire tantissime cose. D’altronde ci sono ancora individui che negano l’esistenza dei lager e dei gulag (meglio non continuare con questo argomento).
Secondo i primi storici cinesi, in particolare Sima Qian, la storia della Cina iniziò con una sequenza di tre primi sovrani, seguiti da una successione di cinque imperatori. Il primo re fu Fuxi e il terzo fu Shennong (figure descritte come metà umani e metà animali). I loro successori, i cinque imperatori, furono caratterizzati dal primo: Huangti, l’imperatore Giallo. Egli introdusse la ceramica e la scrittura.
Il quarto e quinto imperatore della sequenza, Yao e Shun, furono particolarmente stimati come governati modello. Si diceva che il quarto imperatore avesse inventato il calendario agricolo e che, sostenendo indegno al trono il figlio, nominò successore il contadino Shun che a sua volta diventò un regnate modello. Questi continuò l’attività di Yao e scelse come successore un esempio di virtù, un uomo che si chiamava Yu. È a questo punto che la storia cinese incomincia a integrare una serie di documenti archeologici, perché quest’ultimo fu ritenuto il fondatore della dinastia Xia (2205-1766 a.C.).
Essa costituiva una delle prime tre dinastie antiche, talvolta conosciute come le sandai. Le altre due erano la Shang e la Zhou: Xia al centro, Shang a oriente e Zhou a occidente, si considera che abbiano condiviso essenzialmente la stessa cultura.

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