Le crociate

I Normanni dell’Italia meridionale (XI) furono anche tra i protagonisti di uno degli eventi più significativi dell’età medievale: le crociate.

Il pontefice Urbano II, durante il Concilio di Clermont-Ferrand (novembre 1095), aveva deplorato le lotte fratricide tra i cristiani esortando un pellegrinaggio in Terrastanta come mezzo di purificazione dei peccati e come occasione per recare aiuto alla Chiesa orientale minacciata dagli infedeli. A oggi sappiamo benissimo che quest’ultima non era minacciata dagli “infedeli” ma, al contrario, temeva proprio la Chiesa romana d’occidente. Infatti, la richiesta di aiuto contro i Turchi appare difficilmente credibile, dato che la Chiesa d’oriente aveva da temere più dagli occidentali che dai Turchi; il pericolo veniva proprio da Occidente, soprattutto a opera dei Normanni che, dopo aver rinunciato alla conquista di Costantinopoli, avevano concentrato le loro mire sui territori bizantini nei Balcani.

Sottolineiamo che i Cristiani avevano già conquistato Gerusalemme e che, chi ascoltò le parole di Urbano II, aveva sicuramente caricato e marcato in maniera esponenziale il significato delle sue parole. Dalla generica esortazione del pontefice a un semplice pellegrinaggio, si passò a un vero movimento di fede; questo fu perché la società europea della fine del XI secolo era prevalsa da un forte slancio espansivo: la popolazione era in aumento, nuove terre venivano messe a coltura, i mercanti, soprattutto italiani, contendevano ai musulmani il controllo dei commerci nel Mediterraneo. Tutto questo condito a un confuso ottimismo con profonda inquietudine religiosa – alimentata da predicatori –, allo stesso tempo c’era il desiderio di espiazione dei peccati che, unito allo spirito di avventura, facevano incrementare sempre di più il numero dei pellegrinaggi.

La Spagna, allora, era teatro di guerra tra Cristiani e Musulmani, vedere il pellegrinaggio al santuario di Compostela.

La scusa che i turchi minacciassero le comunità Cristiane d’Occidente sui pellegrinaggi a Gerusalemme, non può essere considerata un elemento decisivo. Nei territori a loro sottomessi i musulmani assicuravano ai cristiani libertà di culto e forme di autonomia, che i loro correligionari residenti nei territori cristiani non si sognavano neppure.

C’è da sottolineare che i Turchi erano da poco convertiti all’Islam e quindi meno tolleranti degli Arabi, niente però autorizza a credere che le condizioni dei Cristiani in Terrasanta si fossero aggravate.

Di certo è, che, non va sottovalutata la componente religiosa del movimento crociato.

Nel Medioevo l’uomo era al centro di tutto, ma era un centro spirituale in continua ricerca dell’accomunar con la fede e Dio; la religione premeva la vita dell’uomo in una misura che noi oggi abbiamo difficoltà a cogliere (perché non siamo uomini medievali). I cavalieri francesi, fiamminghi, lorenesi e italiani che si diressero in Terrasanta, erano mossi non solo dallo spirito di avventura e dal desiderio di conquista, ma anche da un forte entusiasmo religioso, senza il quale non si potrebbe spiegare come riuscissero a superare gravissime difficoltà di carattere ambientale e organizzativo.

Nel 1095 fu promossa la cosiddetta crociata dei poveri, dove a capo c’era un predicatore di nome Pietro di Amiens detto Pietro l’eremita. Ne furono protagonisti gruppi numerosi di poveri ed emarginati, male armati e privi di qualsiasi forma di organizzazione. Si misero in viaggio verso Oriente attraverso le valli del Reno e del Danubio, il loro passo fu segnato ovunque da saccheggi e massacri di Ebrei, non per motivi razziali (all’epoca non esistevano), ma per motivazioni spinte dalla religione. Questo clima di grande emozione religiosa venne dimostrato soprattutto dalle zone, per l’appunto, rivolte verso gli Ebrei, soprattutto in Francia e quella che oggi è la Germania. Del pellegrinaggio, quelli che sopravvissero al cammino tra cui vecchi, donne e bambini, furono massacrati a loro volta dai Turchi. Pietro l’eremita fu uno dei pochi a salvarsi, attendendo l’arrivo dei crociati a Costantinopoli.

Urbano II, preoccupato per la partenza indiscriminata dei pellegrini fanatici, insistette per la partenza crociata nel 1096, doveva fermarli e riprendere l’ordine sociale. A lui rispose il fior fiore della feudalità, soprattutto francese.

La spedizione si mosse nel giugno del 1097, procedendo in mezzo a gravi difficoltà. La stagione estiva, in MedioOriente, non era la più propizia per un esercito di cavalieri armati in maniera inadeguata alle condizioni climatiche, oltre che impreparati ad affrontare un nemico che si esponeva velocemente e faceva largo impiego arcieri e di cavalieri armati alla leggera.

Ciò nonostante il 15 luglio del 1099, dopo cinque settimane d’assedio, si giunse alla conquista di Gerusalemme che fu accompagnato al massacro quasi totale della popolazione musulmana ed ebraica.

Tra il Cinquecento e il Seicento gli storici protestanti non videro di buon occhio la questione delle crociate. Tale pensiero fu ripreso dagli Illuministi, i quali vi videro un prodotto di intolleranza del fanatismo (sentimento di cui si appropriarono in primis durante e dopo la Rivoluzione francese).

La polemica sulle crociate, così come quella del Medioevo, finì con l’avvento del Romanticismo, con il quale oggetto di valutazione positiva divenne proprio la passione religiosa, che consentì ai crociati di superare difficoltà che sembravano insormontabili. La passione religiosa portò alla passione scientifica e sentimentale, innalzando un sentimento nazionale che poi divenne nazionalista e razzista.

Da allora il sentimento delle crociate e il loro movimento venne mantenuto vivo sin dopo il Secondo conflitto mondiale. Nel secondo dopoguerra si crearono due movimenti: uno fu l’apporto di specialisti del settore da quelli della ricerca storica tradizionale e dall’altro l’attualità che il tema ha raggiunto tra storici israeliani e storici arabi sulla legittimità di stato Palestina o Israele in netto contrasto dal regno latino di Gerusalemme.

La crociata fu un movimento complesso che segnò, per almeno tre-quarti del secolo, la società europea e che coinvolse papi, sovrani, cavalieri, poveri, pellegrini senza però sviluppare una vera e propria ideologia; semplicemente perché chi vi partecipò visse in maniera individuale tale esperienza, con la propria visione e i propri ideali di tale movimento, unito solo da un credo religioso.

I genocidi che hanno caratterizzato tutto il Novecento

Quando affrontiamo argomenti come genocidio, in tutta la sua efferatezza, dobbiamo prima essere al corrente del completo significato della parola. Non è altro che un crimine internazionale per il quale i responsabili – qualsiasi ruolo ricoprano – possono essere imputati, processati e condannati dalla Corte Penale Internazionale. Esso è considerato universalmente uno dei peggiori crimini morali che un governo, o qualunque autorità al potere – anche costituita da un gruppo di persone passate per guerrigliere – può commettere nei confronti dei cittadini, di una popolazione, di tutti coloro che sono soggetti al controllo.

In cosa consiste:

1) uccisione di membri del gruppo;

2) grave pregiudizio dell’integrità fisica o psichica dei membri del gruppo;

3) assoggettamento intenzionale del gruppo a condizioni di vita tali da comportare la distruzione fisica totale o parziale del gruppo;

4) misure, ostacolare le nascite in seno al gruppo;

5) trasferimento forzato di bambini del gruppo a un altro gruppo”.

Il concetto è di annientare, in toto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Il genocidio è altresì oggetto di studio da parte degli storici e degli scienziati sociali, ma la definizione giuridica del concetto si dimostra inadeguata per un’indagine di tipo storico ed empirico.

Condannabili sono anche i crimini contro l’umanità come: gli eccidi di Stato, le campagne di sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione, la tortura, lo stupro, la schiavitù a fini sessuali, il sequestro, l’eliminazione clandestina (il fenomeno dei cosiddetti desaparecidos) e l’apartheid.

Nella storia dell’umanità i genocidi ci sono sempre stati, ma prima dell’era contemporanea – e, precisamente, prima del processo di Norimberga – venivano indicati con altri terminologie. Innanzitutto il genocidio può anche essere chiamato ‘democidio’ (dal greco δχ͂μος, ‘popolo’), ed è l’uccisione intenzionale, da parte di un governo, di individui disarmati e indifesi, quale che sia la motivazione dell’atto stesso.

Tra il 1226-1233 Gènghiz Khān intraprese la distruzione dei Tanguti in Cina, nessuno lo catalogò come un vero e proprio genocidio, eppure fu così. Generalmente questi atti violenti contro un’altra popolazione venivano indicati come atti puramente barbari, come massacri, eccidi, carneficine, efferatezza. 

Nel corso del XX secolo – iniziato con i nazionalismi del XIX, con pensieri allusi dopo la Rivoluzione francese (XVIII) – i governi hanno ucciso circa 174 milioni di persone.

In massima parte (probabilmente 110 milioni di persone) il genocidio è imputabile a governi comunisti, in particolare l’Unione Sovietica di Lenin, poi di Stalin e dei loro successori (62 milioni di vittime) e la Cina di Mao Zedong (35 milioni). Anche le dittature di destra come quella Nazista e Fascista, appoggiata dalla Spagna di Franco non furono da meno, dove un numero considerevole di vittime è stato provocato da questi regimi totalitari o autoritari, specialmente la Germania di Hitler (21 milioni di persone).

Il governo nazionalista di Jiang Jieshi (Chiang Kai-shek) in Cina (circa 10 milioni) non fu da meno, lasciando che i giapponesi piegassero la popolazione del loro paese; lui e Mao Zedong capirono dopo che doveva unirsi per cacciare il nemico. 

Altri genocidi con un numero di vittime inferiore sono stati perpetrati dai governi dei Khmer rossi in Cambogia, da quelli del Giappone, della Corea del Nord, del Messico, del Pakistan, della Polonia, della Russia (già citata), della Turchia, del Vietnam e della Iugoslavia sotto Tito. 

A prescindere dal tipo di governo, la probabilità di genocidio aumenta in caso di guerra, o quando uno Stato si trova ad affrontare sconvolgimenti interni provocati, per esempio, da una rivoluzione, da una ribellione o da un attacco esterno; per epurare dei membri di un gruppo odiato, per scongiurare una presunta minaccia, per la trasformazione ideologica di una società, etc…

La soppressione dei prigionieri di guerra, l’uccisione indiscriminata dei civili o le azioni militari contro di essi, l’affondamento di navi cariche di passeggeri inermi sono considerati crimini di guerra e contro l’umanità.

Alla fine del XIX secolo, le grandi potenze europee minacciarono un’azione contro l’Impero ottomano per gli eccidi di cristiani; o lo zar della Russia, ripresa, poi, dall’Unione Sovietica, e la sua persecuzione contro gli ebrei (persecuzione adottata anche nel Rinascimento dagli spagnoli contro ebrei e mori). Il problema ebraico, nei primi del Novecento, era condiviso da tutti gli stati europei e, sempre per i russi, durante la Prima Guerra Mondiale, gli ebrei erano vennero visti dal governo come dei nemici interni e subirono dure persecuzioni. Nel corso della seconda guerra mondiale, quando il mondo venne a conoscenza della terrificante portata dello sterminio degli ebrei attuato dai nazisti, fu riconosciuto – senza passarsi una mano sulla coscienza – come un crimine mai visto nella storia. Prima di loro, i nazisti, visto che aveva solo l’intenzione di espellere tale popolazione, lo sterminio fu atto ai popoli slavi, agli zingari, agli omosessuali e a tutti coloro che fossero nati con delle problematiche fisiche e di salute permanenti. Ma per loro nessuno si è mosso, perché la Germania si adoperava per sconfiggere un “nemico” comune: il comunismo.

Il concetto di genocidio trovò la sua prima applicazione giuridica durante il processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti (1945-1946). Essi furono condannati per “crimini di guerra” – terzo capo d’accusa – , tra cui il genocidio deliberato e sistematico: ovvero lo sterminio di gruppi razziali e nazionali, diretto contro la popolazione civile di alcuni territori occupati, al fine di distruggere determinate razze e categorie di persone, nonché determinati gruppi nazionali, razziali o religiosi, in particolare Ebrei, Slavi e Zingari. 

Un altro atto di eccidio fu la carestia indiana causata a più riprese (1769-70, 1876-79, 1896-1900) dalle politiche economiche e amministrative britanniche. E quando la dinastia Ming crollò il (1635-1662) si ebbero molti morti, sempre nella terra della Cina si avrà la guerra civile di Taiping (1850-64), contro l’invasione mancasse con la sua dinastia Qing .

Le famose purghe di Stalin, che in Unione Sovietica, dal 1928 al 1954 costarono la vita a molte persone.

Non dimentichiamo il genocidio degli Armeni, iniziata nella seconda metà dell’Ottocento a causa della tirannia dell’Impero ottomano, avendo la sua massima attività tra il 1915 e il 1916. I massacri del Ruanda contro la popolazione degli Tutsi, uno dei genocidi più feroci della storia recente. La ex Jugoslavia ci ha regalato uno scenario di massacri e morti così sanguinari da farci rendere la  razza animale peggiore su questa terra.

In Cambogia, in Cecenia, la Cina con l’occupazione tibetana ci ha fatto dare il peggio di noi stessi. Gli zingari, i curdi, i nativi americani e quello dell’America del Sud.

L’eliminazione dei gruppi cristiani e dei musulmani ‘blasfemi’ in molti paesi islamici odierni, come l’Iran e l’Arabia Saudita; la pulizia etnica praticata dai Serbi in Bosnia ed Erzegovina negli anni novanta; e, infine, la guerra che l’esercito birmano ha condotto contro i Karen e altri gruppi etnici.

A oggi, i massacri, si sono estesi anche sugli animali, una mattanza che sembra non aver fine. Ma se non abbiamo rispetto per la nostra specie animale, tanto meno possiamo averne per tutti gli organismi viventi su questa terra.

Il Medioevo germanico, i Longobardi

I Vandali spostati dalla Spagna fino all’Africa settentrionale, i cui rapporti con le popolazioni non furono mai semplici, soprattutto per il fatto che appartenessero a una religione considerata eretica: il Cristianesimo Ariano (arianesimo), vennero anche indebolite dalla pressione dovuta dalle tribù berbere; tra il 533 e il 534 furono travolti, infine, dall’espansionismo di Giustiniano e sparirono definitivamente dalla scena politica.

I Burgundi (da dove nascerà l’attuale Borgogna), gli Svevi e i Visigoti. Questi ultimi, dopo il sacco di Roma, furono stanziati come federati in Aquitania, allargandosi in Provenza e nella penisola Iberica fino a quando non furono fermati dai Franchi, i quali presero le loro terre spingendoli definitivamente nella penisola Iberica, che finirono di occuparne in gran parte, incorporando anche il regno degli Svevi.

Il regno dei Franchi, riuscirono a fermare l’espansione araba e, nella loro unificazione di vare piccole tribù di aggregati sotto il dominio di Clodoveo, re dei Franchi salii, iniziò la dinastia merovingia. Cacciati via i romani dalla Gallia, egli si volse anche contro le altre popolazioni germaniche presenti sul suo territorio: i Visigoti e, soprattutto – dove trovò un duro ostacolo – con Teodorico re degli Ostrogoti, il quale intervenne in difesa degli Alamanni e dei Visigoti. Dopo che il re franco ebbe il controllo su un vasto territorio che andava dalla Provenza, tutta la Gallia romana fino a una fascia lungo il medio corso del Reno, inglobò anche il regno dei Turingi e, poi, quello dei Burgundi. Clodoveo e i franchi si convertirono al cristianesimo, eliminando quei motivi di incomprensione che c’erano stati con le altre popolazioni germaniche.

Un altro popolo germanico proveniente dalla Scandinavia subentrò in Europa centrale fino ad arrivare, tra il 568 e il 569, attraverso il Friuli, in Italia sotto la guida di Alboino. A differenza delle altre popolazioni germaniche, i Longobardi non avevano mai avuto dei contatti con il mondo romano; loro, infatti, tra tutti i popoli germanici, erano quelli che meno si erano allontanati dai loro usi tradizionali, per cui non solo il re aveva un carattere di un capo militare eletto dall’aristocrazia nei momenti di necessità, ma il suo potere era limitato dall’ordinamento tribale del popolo. Il grosso dei territori Longobardi furono concentrati nell’Italia padana, in Piemonte, nel Friuli, nel Trentino e nella Toscana; mentre i Bizantini riuscirono a mantenere la Romagna – nome derivato, per l’appunto, dalla Romania.

Mentre i Franchi si avvalevano dei conti (termine di derivazione latina), i Longobardi, nel loro corrispettivo, avevano i duchi (termine di origine germanico).

A oggi si ha la Lombardia, l’unica striscia restante della dominazione longobarda, dove in queste terre i romani vennero uccisi, resi schiavi o privati di ogni rapporto nella vita politica.

I Longobardi scelsero i siti occupati dalle popolazioni romane, cogliendo i cambiamenti verificatesi in epoca gotica come la nascita di centri quali Verona e Pavia. Anche i cimiteri sorsero in siti giù utilizzati dai romani, ma la continuità degli insediamenti urbani e rurali non da a intendere che nulla fosse cambiato dall’età romana, le strutture erano in forte degrado quando Teodorico decise di effettuare un intervento di recupero.

I Longobardi, per proteggersi dagli attacchi dei Bizantini, cominciarono a darsi un ordinamento politico più stabile, fino a volgersi verso il modello romano e, di conseguenza, un consequenziale rafforzamento della figura del re. 

Per gestire i beni della corona furono creati degli appositi funzionari, i gastaldi, che, nel corso del tempo, i loro poteri furono ampliati diminuendo quello dei duchi. Il gastaldo fungeva il ruolo di controllo per conto del re, esercitando ancora di più il suo potere. Fu anche creata una categoria particolare di collaboratori, i gasindi, i quali, legati al re da un vincolo di fedeltà, venivano ricambiati con ricchi doni.

Con il re Agilulfo ci furono per la prima volta dei rapporti non conflittuali con la Chiesa di Roma, allora guidata dal pontefice Gregorio Magno (590-604). Costui era discendente di una nobile famiglia romana, gli Anici, e dotato di una buona cultura letteraria e politica. Egli si dichiarò Servus servorum Dei (servo dei servi di Dio), un appellativo destinato a restare per sempre il titolo ufficiale dei pontefici. Si preoccupò di assicurare alla Cristianità occidentale un’impronta unitaria e di diffondere la liturgia romana con il canto: da qui, e quindi da lui, prese il nome di Canti Gregoriani.

Con il battesimo del rito Cattolico dei re Longobardi, però, non fu assicurata la conversione di massa dell’intero popolo, a causa soprattutto della resistenza dei duchi, legati alle tradizioni nazionali. A causa di questo problema ci fu uno scontro tra lo schieramento filocattolico e quello nazionalista (n.b. non ricollegabile al nazionalismo dell’era contemporanea), il duca di Brescia, Rotari, fece mettere per iscritto le leggi longobarde (Editto di Rotari), riprendendo la guerra contro i Bizantini.

Il più grande re dei longobardi, però, fu il cattolico Liutprando, a lui si deve la completa conversione del popolo al Cattolicesimo. Ma i Longobardi stavano prendendo campo in Italia sia con il potere temporale che con quello spirituale: un editto dichiarava che, tutti coloro, in base alle ricchezze che possedevano, fossero stati uomini liberi dovevano armarsi; non escludendo che la maggior parte dei vescovi era longobarda, dal quale, a imitazione del potere regio, venivano fondati (e proteggeva) i monasteri, dotandoli di cospicui beni fondiari. Perciò, il nuovo papa, legato alla tradizione di Roma imperiale e preoccupato dell’espansione e della crescita del potere longobardo, non esitò a provocarne il tracollo chiamando in Italia i Franchi, prima con Pipino il Breve e, poi, con Carlo Magno.

Fu così che la scelta del papato non fu più religiosa.

Come cambiò l’Impero romano d’occidente

Tre grandi gruppi dove il destino differenzierà sempre di più, le popolazioni germaniche si misero in movimento subentrando in Europa nel 200 a.C. fino ai territori dei Galli.

Il primo contatto con i Romani lo ebbero nel II secolo a.C., grazie alla conquista della Gallia da parte di Cesare; un confine naturale divideva le due terre, il Reno poneva il limite tra quello che era l’Impero romano e le terre popolate dai vichinghi, fino al tempo del balzo definitivo dei Germani verso le regioni del Mediterraneo.

I popoli germanici erano allevatori di bestiame (soprattutto cavalli e bovini), praticavano l’agricoltura con metodi assai primitivi – per il loro modo di ripulire dando fuoco al terreno (metodo detto del debbio), rendeva la terra improduttiva rendendoli avvezzi al nomadismo –; ma, soprattutto, sostenevano il primato delle virtù guerresche.

La civiltà germanica si sviluppò lentamente, in seguito all’espansione degli indoeuropei fondendosi con loro.

Non esisteva proprietà fondiaria e la distribuzione delle terre veniva fatta ai clan, a livello individuale tenevano beni come il bestiame che, spesso, era il risultato di razzie nei territori circostanti.

In definizione, il popolo germanico è caratterizzato da uomini in armi, l’unica gerarchia esistente era quella dei duces, capi militari grazie al prestigio guerriero (solo per questo meritavi il Valhalla), ma anche per la potenza magico-sacrale delle stirpi a cui appartenevano. Gli adalingi (i nobili) possedevano il prestigio ereditario grazie a tali valori (militare e sacrale), ma erano pur sempre soggetti al controllo di un consiglio di anziani e all’approvazione dell’assemblea del popolo in armi.

Il popolo germanico era un popolo in armi che praticava una sorta di democrazia diretta, l’unico strumento per emergere era la capacità fondata sul valore reso in guerra, aggregando intorno a un singolo guerriero una sorta di giovani guerrieri, per compiere razzie e scorrerie.

La ricettività dei popoli germanici in confronto a ciò che li circondava è dimostrata, soprattutto con i contatti con l’Impero romano. Lo dimostrano dalle vicende dei Goti: questi ultimi si ritrovarono alquanto diversi dai loro antenati e dagli altri ruppi etnici che venivano dalla foresta, i contatti con le varie tribù germaniche, poi con i nomadi di stirpe iranica (Sarmati e Alani), infine con le città greche lasciarono una forte impronta religiosa, sull’assetto sociale e sul modo di combattere; il progresso del combattimento a cavallo (i germani, per combattere, scendevano da cavallo), e la formazione di una struttura sociale più gerarchica, terminando su basi stabili come le monarchie tribali a carattere militare.

Genti germaniche e nomadi delle steppe si influenzarono a vicenda, subendo, in seguito, anche l’infeuda del mondo ellenico e romano. La penetrazione di popolazioni germaniche – subentrati in nuclei familiari – all’interno dell’impero romano si faceva sempre più persistente, i romani, reduci delle cattive abitudini dei loro centurioni, reclutarono nelle legioni uomini appartenenti a queste tribù. Il risultato fu che nel III secolo, all’interno delle legioni romane, la presenza dei germani si fece sempre più prelevante, avviandosi a lambire la presenza di elementi germanici nei più grandi gerarchi militari. Nelle regioni confinanti con il Reno furono accolte tribù vichinghe come Alamanni, Franchi e Burgundi, respingendo l’attacco dei Goti. Ma l’arrivo nelle steppe degli Unni (raggruppamenti di popoli turco-mongoli), spinse all’interno del’Impero i nomadi cavalieri Goti. Questi invasori travolsero e inglobarono prima gli Alani, poi gli Ostrogoto (i Goti dell’Est); proseguendo investirono i Visigoti (i Goti dell’Ovest), i quali avevano un’alleanza con l’Impero, non resistettero ai continui attacchi e costretti – dopo aver ottenuto il nullaosta dall’Impero romano – a subentrare nel territorio romano.

Dai territori della Tracia (nell’attuale Romania), i Visigoti furono dei federati dove avrebbero mantenuto il tributo del popolo e, in cambio, avrebbero dato loro protezione. Ma la popolazione gli fu ostile, ci fu una guerra, uno dei disastri militari più grandi della storia romana: la distruzione dell’esercito imperiale da parte della cavalleria gotica presso Adrianopoli, comportò alla morte sul campo dell’imperatore Valente.

Il nuovo imperatore, Teodosio, stipulò un nuovo accordo con i Visigoti che prevedeva il loro trasferimento nell’Illirico (l’attuale Bosnia-Erzegovina, Albania e Grecia. Instaurò nuovamente l’unità imperiale ma, alla sua morte, l’Impero venne diviso con i suoi due figli: Onorio (Impero d’Occidente) e Arcadio (Impero d’Oriente). L’apertura che questo imperatore aveva verso le popolazioni germaniche fu tramandata, portando elementi germanici – uomini valorosi – all’interno del senato romano (aristocrazia senatoria).

La pressione che gli Unni continuavano a effettuare tra i Visigoti e altri Germani orientali diventarono sempre più inquiete, pressioni incoraggiante anche da Costantinopoli. Quest’ultima non voleva la presenza di popoli germanici nelle sue terre, spingendoli sempre di più verso l’Impero romano d’occidente.

La situazione precipitò nel 406, quando un’incursione di bande Ostrogote e altri germanici guidati da Radagasio – e poi alla rinnovata minaccia dei Visigoti di Alarico –, nella notte di San Silvestro fu superato da Vandali, Alani e Svevi diretti in Gallia e poi in Spagna. A essi si aggiunsero, seppur con un consenso imperiale, i Franchi e i Burgundi.

I Visigoti guidati da Alarico entrarono a Roma nel 410 dalla porta Salaria. La città crollò, così come il mito della sua invincibilità e la fede nella sua missione eterna.

Intanto la Britannia dovette far fronte all’invasione da parte degli Angli, Sassoni e Juti (proveniente dallo Jutland e dalle regioni costiere della Germania odierna). I Bretoni scapparono alla loro invasione nel Nord-Occidente della Francia attraversando la manica, mentre il restante dei Galli vennero spinti nel Galles.

L’Orda d’oro

Come sappiamo, tra il VIII e il IX secolo i popoli provenienti dalla Scandinavia, detti Verghi o Variaghi (i Vichinghi), si mossero verso le due vie commerciali che collegano il mar Baltico con i grandi imperi bizantino e arabo. I popoli slavi che risiedevano in queste terre li chiamavano Rus, questi ultimi si stabilirono, sotto la guida di Oleg, più a nord creando il principato di Kiev. Erano in minoranza e a loro si aggregarono i popoli slavi dell’est (quelli a oriente: Russi, Ucraini, Russi Bianchi). Si unirono tra loro, gli slavi presero il loro nome (Rus), mentre i vichinghi assorbirono lingua e cultura.

I principi di Kiev strinsero con Bisanzio dei rapporti commerciali, regolamentati da un trattato, ma una svolta si ebbe col principe Vladimir, stringendo intorno a sé tutte le tribù slave in un Dio comune, convertendosi al Cristianesimo – egli stesso ricevette il battesimo la domenica di Pentecoste del 19 maggio 989. La chiesa russa fu posta sotto la guida del metropolita di Kiev, nominato patriarca da Costantinopoli. L’incarico di creare un ponte tra la rete della diocesi fu dato a dei greci, i quali inserirono non solo il culto di stampo greco, ma anche l’arte delle icone bizantine.

Ma Kiev non fu molto forte a resistere agli attacchi di popolazioni turche (Peceneghi e Cumani), il problema delle reti commerciali sul Mediterraneo e la lotta al potere dinastico.

Il principato di Novgorod decise di approfittarne, il quale, già, teneva i territori di: nel bacino superiore del Volga, Rjazan e Vladimir, per poi aggiungere nel XIII secolo Mosca.

Presto, i russi, avrebbero assimilato anche parte della cultura mongola – soprattutto riguardante l’arte e i costumi –, l’orda mongola giunse presto in occidente; prima fu completata la conquista della Cina e della Corea, poi fu sottomessa l’intera Persia. Nel giro di pochi anni furono travolti i principati russi – Kiev fu distrutta nel 1237 –, a seguire l’esercito ungherese e polacco minacciando Vienna e la Germania, già in atto con la mobilitazione della crociata di papa Gregorio IX. Ma, nel 1242, si ritirarono, lasciando la parte danubiana in un’immane desolazione. L’Europa tirò un sospiro di sollievo, mentre la popolazione russa rimase sotto l’Orda d’oro del grande khan.

I mongoli avanzarono ancora, saccheggiarono Bagdad uccidendo lo stesso califfo. Invasero l’Armenia, l’Azerbaigian, la Mesopotamia, la Siria e l’Egitto dove, in questa terra, trovarono la resistenza dei Mamelucchi, liberando poi anche la Mesopotamia.

Si formarono così quattro grandi imperi, differenziandosi nel corso degli anni sempre di più tra di loro.

Duranti gli anni del regno la popolazione tartara si integrò con quella turca, convertendosi all’islamismo; ma non ebbero un processo simile con la cultura cristiana e, soprattutto, con i russi oramai slavi a tutti gli effetti. Molti russi si sottrassero al dominio mongolo andando verso nord-est, aumentando lo sviluppo della già nata Mosca. Quest’ultima offriva un buon rifugio protetta dagli alberi e dai terreni paludosi, non adatto alle famose cariche degli invasori.

Mosca crebbe e, nel Trecento, il principe Ivan I estese il territorio accordandosi con i Tartari e mettendoli contro ai loro connazionali. Ebbe il titolo di gran principe, riscuotendo i tributi che solo i principi sotto l’Orda doro erano incaricati.

Nel 1380 i tempi furono maturi per tentare un attacco contro i Tartari, sconfitti da una coalizione russa guidata da Dimitri (Donskoi, vincitore della battaglia sul Don); ma due anni dopo i Tartari ripresero il controllo sul territorio, saccheggiando Mosca e riprendendo il dominio su tutta la regione. Ma i vari Khan si frantumarono ed ebbero un conflitto tra di loro, fu così che i principi di Mosca furono di nuovo in grado di riprendersi la città e il predominio nella regione. Ora, le popolazioni sotto mosca, vollero avere l’autonomia. La prima fu la Lituania, in quanto pagana, si unì alla Polonia (sotto la guida del gran ducato di Jagellone) convertendosi al cattolicesimo.

Con la conquista mongola, l’islamizzazione dei Tartari e l’ortodossia del Cristianesimo russo, portò l’Orda d’oro a separare la Russia dal resto dell’occidente; facendo sì che i principi, tra di loro, si unirono per combattere la dominazione mongola.

Ai mongoli è attribuita la responsabilità di aver contribuito, con la loro costante minaccia armata, al rafforzamento dell’aristocrazia dei boiari nonché, con l’esempio dal khan tartaro, al formarsi del modello del principe come autocrate assoluto: modello che, invece, altri storici, attribuiscono piuttosto a quello bizantino.

L’Impero bizantino

Mentre in occidente il medioevo è strettamente germanico come «una razza pura senza mescolanze che non assomiglia che a se stessa…» così afferma Tacito, 98 a.C. (Germania), ma, contrariamente a ciò che afferma lui non è mai esistita una comunità germanica originaria, omogenea dal punto di vista culturale e linguistico; i vichinghi da cui avrebbero generato i popoli germanici differenziandosi gli uni dagli altri, crearono la loro società medievale. Ricordiamo, prima di passare all’oriente bizantino, che la civiltà germanica si formò lentamente, in seguito all’espansione degli Indoeuropei nell’Europa del Nord, unendosi con le popolazioni indigene (ma tratteremo questo argomento, specificando i tre grandi gruppi germanici, nel prossimo articolo).
In occidente, come menzionato qui sopra, si stava delineando una realtà attraverso la fusione tra civiltà germanica e quella romano-cristiana; in oriente l’Impero romano d’oriente non era ancora caduto, mostrando una sorprendente capacità di resistenza alle pressioni esterne e tensioni interne.
I bizantini – non tralasciando il diretto collegamento col passato romano, talché romani e tale continuarono a chiamarsi –, il risultato di una nuova forma statale e di una nuova civiltà, e Romània (Dacia) fu il nome con cui tutto il Medioevo fu indicato l’impero bizantino. Il termine Romania deriva quindi dall’aggettivo latino Romanus ovvero Romano, dove poi il punto di partenza dello Stato bizantino fu l’11 maggio del 330, quando Costantino inaugurò – dandole il suo nome – la nuova capitale sul Bosforo. Stiamo chiaramente parlando di Bisanzio, la Costantinopoli cristiana, poi rubata e nominata magnificamente Istanbul dagli Ottomanni. Fu così che Costantinopoli fu attrezzata a imitazione della prima città di quello che fu un grande impero: Roma.
Lo scrigno che protesse l’impero d’Oriente fu una chiusura verso le immigrazione barbariche, germaniche. Si affermò una chiusura netta nei confronti dei germanici che, spinti dalla questione Unna, vennero diretti verso l’impero romano d’Occidente causandone una trasformazione tale da nominarla nel tempo: la caduta dell’Impero romano d’Occidente.
È da sottolineare come la terminologia recente, come Impero Bizantino, non venne mai utilizzata durante gli anni dell’impero (non dimentichiamo che l’Impero romano d’Oriente, separatosi dall’occidente dopo la morte di Teodosio I nel 395 d.c. dovrebbe segnare la fine dell’impero “romano” per sostituirlo con il termine “bizantino”, da Bisanzio, l’antico nome della capitale Costantinopoli, oggi Istanbul), inquanato i bizantini stessi si considerassero romei – romani in lingua greca – nominandosi: Basileia Rhomainon, Regno dei romani o Rhomania. La dicitura di “Impero bizantino” fu introdotta nel 1557 dallo storico tedesco Hieronymus Wolf, il quale, in quell’anno, stampò il libro Corpus Historiae By­zantinae.
I bizantini si definivano romani, anche se in lingua greca ma, dove, la lingua ufficiale non fu altro che il latino, definita una cultura latina accanto a quella greca e Costantinopoli continuò a essere comunque, fino agli inizi del XIII sec., la città più ricca e popolosa dell’epoca, custode almeno in parte dell’eredità culturale romana.
Ai bizantini si deve anche, per noi italiano, il nome alla Romagna: derivando dal tardo latino Románia, quando l’Italia fu divisa tra aree soggette ai Longobardi e all’Impero Romano d’Oriente. Románia assunse quindi il significato generico di “mondo romano” (in opposizione a quello longobardo). Romagna, terra dei romani, contro e in netto contrasto alla Longobardia, terra dei longobardi. Longobardia e Romania, la zona dell’attuale Romagna di dominio bizantino che, con il risorgimento italiano, fu rinominata col suo originario Emilia ma che, nel 1947, fu definitivamente identificata con Emilia Romagna.
L’Imperi bizantino ebbe molte lotte, la prima fu la separazione, la scissione – la prima scissione, mentre la seconda si avrà con l’anglicanesimo per mano di Enrico VIII – della chiesa cristiana, dividendosi in cristianesimo cattolico della chiesa romana e cristianesimo ortodosso della chiesa greca.
Con il problema delle crociate e altre lotte contro i Turchi, l’Impero bizantino terminò nel 1453. Nato nel 395 fu uno degli impero più lunghi nella storia – se considerato parte dell’Impero romano –, un impero che ebbe vita per molti anni.
Espugnata Costantinopoli nel 1204, venne fondato l’Impero latino, da cui scaturirono tre stati bizantini: Impero di Nicea, Epiro e Trebisonda. Il primo, sotto la dinastia dei Paleologi, riuscì a riconquistare Costantinopoli nel 1261. Infine i Turchi ottomani invasero l’impero, abbandonato dagli europei perché rifiutata la riunificazione con la Chiesa Cattolica, ponendo quest’ultima come stato assoluto.
Maometto II pose fine all’impero, l’urto poderoso degli Arabi – i quali travolsero l’impero persiano – ci misero molti anni per poter entrare in quello bizantino. All’interno di questi confini, non solo resistettero a lungo tempo contro le pressioni arabe e bulgare, nel corso di questi anni riuscirono a far fiorire in un’età dell’oro la cultura di Bisanzio, soprattutto in Italia e nei Balcani. Vi fu anche la bizantizzazione degli Slavi, quindi il formarsi di una cristianità slavo-ortodossa: una cultura ancora presente ai giorni d’oggi.
Nel corso del VI secolo fecero la loro comparsa nei territori bizantini dei Balcani gli Slavi, che giù nel secolo precedente si erano insediati in Russia, Ucraina fino al Don. Si colloca la loro prima apparizione nella catena dei Carpazi, nell’attuale Polonia, Boemia, Slovacchia e Ucraina. Questa tribù si divide in Slavi occidentali (Slavi dell’Elba, Polacchi, Cechi e Slovacchi), Slavi meridionali (Sloveni, Croati, Serbi, Macedoni) e Slavi orientali (Russi, Ucraini, Russi Bianchi). Questi popoli si ritrovarono a confrontarsi con popolazioni come: Germani, Illirici (gli odierni albanesi), Daci (gli odierni rumeni), Sarmati, Finni e altre tribù nomadi e seminomadi; facendo degli scambi commerciali con Avari e Bulgari.
Si ritrovarono in un territorio diviso tra la Chiesa bizantina, Chiesa romana e l’Impero romano-germanico fondato da Carlo Magno.
Le tribù slave furono assorbite ma, allo stesso tempo, molti popoli (come i bulgari) subirono una sorta di slavizzazione. In un Medioevo dove la Cristianizzazione prendeva campo, anche i popoli slavi ne furono avvolti. Cristiano ortodossi furono i Russi, Ucraini, Bielorussi, Serbi, bulgari-slavi e Macedoni; Cristiano cattolici il rimanete delle popolazioni slave (croati, polacchi, etc…).
Gli slavi del ceppo ortodosso – si tratta di due missionari bizantini di Tessalonica, ma di origine slava – non si fermarono a una semplice evangelizzazione, affiancarono a essa una lingua liturgica slava; per questa lingua Cirillo e il fratello Metodio crearono un alfabeto, il glagolitico, avendo alla base l’alfabeto greco corsivo; da qui seguì l’alfabeto cirillico, da cui sono derivati gli alfabeti russo, bulgaro e serbo.
Romania veniva indicata con il nome di Valacchia o Moldavia, in particolare col termine Valacco, il quale deriva da Vlah e utilizzato dalle popolazioni germaniche e slave per definire tutte le persone europee di lingua latina.

La donna nel Medievo

Come pensavano le donne nel Medioevo?
Chi erano e come pensavano?
Il messaggio da diffondere non è appartenente a un mondo sessista, sebbene le donne venissero viste come creature moralmente fragili, deboli fisicamente e viste come esseri da proteggere sia dagli altri che da se stesse. L’aspetto fondamentale della società medievale, i ruoli sociali appannaggio degli uomini dove le donne ricoprono un ruolo che non dipende da loro. Nobili, lavoratrici cittadine o religiose in conventi, erano considerate creature “minorenni a vita”, sottoposte alla protezione e alla sorveglianza degli uomini.
Ma, anche in questa epoca – erroneamente giudicata oscura –, ci furono donne straordinarie, capaci di costruirsi il loro destino.
Le donne, tolte dall’eccezionalità di alcune di loro, generalmente non potevano sostenere un’attività propria, neanche dopo la vedovanza. La legge della corporazione sosteneva che le donne dovevano avere un tutore a vita.
Il concetto della società odierna non ci da la lucidità e l’assenza di criticità per valutare la società medievale che, anch’essa – parliamo di un periodo storico veramente ampio –, soggetta a cambiamento nel corso di quest’epoca. La visione della donna dall’epoca contemporanea a oggi ci distoglie dalla realtà di quel tempo, dove la donna – prendiamo per esempio una contadina – che lavorava la terra, si sposava in età fertile e giovanissima, con un matrimonio combinato e metteva al mondo tanti figli, i quali molti di questi morivano in tenera età di malattia, mal nutrizione o incidenti. L’istinto materno era ben diverso da come lo si viene definito in età contemporanea, a oggi – atto stesso nato con l’avvento del Romanticismo – completamente diverso.
Partiamo dagli inizi, quando, nella società nordica scandinava, la donna nelle tribù vichinghe non era solo considerata indipendente, ma era attiva nella vita sociale quasi quanto un uomo. Non solo poteva scegliere chi sposare, ma poteva anche ereditare. Il cristianesimo a quei tempi, differentemente dall’epoca rinascimentale, era più individuale; ma nulla toglieva che le società cristiane fossero più unite e, per commerciare con i franchi e altri popoli cristiani, era meglio convertirsi.
La donna rinuncia al suo diritto di libertà, vero, ma ne acquisterà uno più propizio per lei e la sua famiglia: quello del potere.
Come può una donna “sottomessa” all’uomo avere più potere?
Le figlie dei nobili non imparavano solo a lavorare a maglie e a gestire la famiglia, molte, dopo il matrimonio, mantenevano la contabilità, stipulavano accordi per conto del marito e portavano avanti la famiglia.
Ma le donne contadine?
Come citato qui sopra non solo lavoravano la terra, ma possedevano un bel da farsi anche nel focolaio familiare. Se avevano figli si facevano aiutare nelle mansioni come: raccogliere l’acqua dal pozzo, e altri mestieri del genere come la raccolta della legna. Non esisteva il camino come lo intendiamo noi, non per i più poveri, c’era solo una canna fumaria e un treppiedi dove collocare un paiolo di rame o di ferro. L’acqua non la bevevano mai pura, visto che sostenevano che le esalazioni maligne potessero fare ammalare, ma aromatizzata con delle spezie, frutta o aceto ed erano diffusi molto gli infusi. Se la famiglia possedeva degli animali (come galline, maiali e capre), era un compito strettamente femminile occuparsi della loro nutrizione e della creazione di formaggi e burro. Nel tardo medioevo le donne gestivano anche la vendita di uova, tessuti e di utensili prodotti dall’uomo. Aiutavano molto i mariti a seconda della ricchezza e delle attività della famiglia. Si occupavano della servitù, della vendita dei prodotti, del bestiame, dei campi e di tanto altro.
Le donne straordinarie che rivestirono dei ruoli particolari e singolari in tutto il medioevo, sono considerate a oggi: donne straordinarie. La figlia del re ostrogoto Teodorico, Amalasunta, sapeva leggere e scrivere; la moglie di Carlo Magno, Liutgarda, si sa che frequentò la scuola palatina. Alessandro Barbero tratta chiaramente di tre importanti donne medievali, e sono: Caterina da Siena, Christine de Pizan e Giovanna d’Arco. Anche Rosvita di Gandersheim, monaca benedettina sassone, fu celebre per la sua produzione letteraria. Trotula si occupò della cura di problema mediche femminili, e ne potremo citare altre come loro…
Generalizzando, non si sa, poi, più di tanto delle donne nel medioevo, esse si sposavano intorno ai quindici e i diciott’anni – in un matrimonio già stato organizzato alla loro tenera età di sette anni – con uomini di almeno trent’anni o, minimo, che avessero dieci anni di più. I rapporti sessuali, dopo il matrimonio, erano proibiti tutte le domeniche e festività, alla vigilia delle feste importanti, durante la quaresima e l’avvento, durante il ciclo, durante la gravidanza e subito dopo il parto.
La mortalità femminile era alta e la metà della loro “sopravvivenza” la trascorrevano in gravidanza, visto che un bambino su due non superava i cinque anni. Le famiglie, nell’effettivo – a causa dell’alta mortalità – non erano numerose nell’Alto Medioevo.
Questa donna veniva vista come vergine, maritata o vedova. La vergine era al vertice della società femminile, inquinato era la pura, la non sposata e soprattutto la consacrata: ossia la monaca. La vedova è una figura forte e molto frequente, sono coloro che, generalmente, non si risposano; vivevano santamente e poi, nella loro vecchiaia, era usanza che si rinchiudevano in un convento – sorte che toccava anche agli uomini in anziana età finire i loro giorni in un monastero.
La donna sposata non era veduta in un livello abbastanza alto.
Molti ignorano che il sacramento del matrimonio avvenne nel XIII secolo (quindi il matrimonio celebrato in chiesa), perché fu dal XII secolo che si impose monogamico indissolubile.
La verginità coincide con l’onore femminile, che ha il suo corrispettivo maschile nella forza e nel vigore nel combattere. La purezza della donna è una valuta di scambio nel mercato matrimoniale, per tutti i tipi di famiglie, anche per le più povere. Le monache offrono questo dono alla chiesa, per dare a essa figli spirituali nella preghiera.
La donna sposata non deve commettere adulterio, peccato che toccherà solo a lei e non al sesso maschile. Se le donne uscivano di casa potevano essere aggredite e violentate e, tale atto, poteva causare la vendetta delle famiglie, portando a una guerra. La donna doveva stare attorno al focolare familiare e in totale protezione.
Ma questi sono geni più antichi, trasmessi dalla natura di una donna che, volontariamente – differentemente dalle druidesse – viveva, in natura, nel focolare familiare.

La crisi del Trecento

Siamo agli inizi del trecento quando, in tutta Europa, si registra un rallentamento di quel processo di crescita che aveva investito nei tre secoli precedenti tutti i settori produttivi e avendo, di riflesso, un aumento di popolazione. Le innovazioni introdotte dopo l’anno Mille nell’ambito delle tecniche agricole erano state di portata limitata e non erano in grado di concorrere ulteriormente all’aumento della popolazione; va di logica che: quando il rapporto tra popolazione e territorio raggiunse il suo punto di rottura, non si poté evitare l’insorgere di frequenti carestie, colpendo maggiormente la parte più povera della popolazione.
Il Trecento viene considerato un secolo di crisi ma anche di trasformazione, un pezzo importante della storia del Medioevo (XIV secolo). Un secolo di grandi letterati come Petrarca e Dante, di mercanti… ma, allo stesso tempo è un periodo attraversato da catastrofi ambientali, disastri economici, di fallimenti e di epidemie di peste.
Quando si trattano argomenti come “crisi economica”, si va sempre a prendere come riferimento il crollo della borsa di Wall Street, riferendoci al famoso 24 ottobre del 1929. Ma crisi non vuol dire sempre la stessa cosa, questi stati transitori nascono con il crollo della borsa – riferendoci anche alla crisi 2008 – , con le speculazioni finanziarie che di colpo si scopre fondata sul nulla, che producono disoccupazione e calo degli investimenti, povertà diffusa e riduzione del tenore di vita della gente. Rotolando alla crisi del Trecento possiamo constatare che ha qualcosa di diverso, anche se ha una comune che le possa collegare alle altre: la crisi del trecento significa fine di un lungo periodo di crescita.
Il periodo storico Medievale è un periodo molto lungo, dove, in esso, si può trovare una lenta crescita, soprattutto quella demografica. Questa crescita è una risorsa e la società si attrezza per produrre di più e dare da mangiare a tutti: aumento della produzione agricola, vino e altri prodotti. Le città si ampliano e accrescono la forza lavoro – soprattutto per la costruzione delle cattedrali – e di disoccupazione non se ne parla. L’espansione degli appezzamenti di terreno da coltivare e coltivato, arriverà a tal punto da istituire leggi per la salvaguardia e la protezione boschiva (i boschi).
E poi la crisi, dove la crescita si inceppa, dove il mondo creato da Dio – società molto credente – a misura d’uomo improvvisamente moltiplica dei segnali di disagio, di malessere. In una società preindustriale come questa, ciò che importava più di tutto e tutti era come sarebbe andato il raccolto, da questo dipendeva se si mangiava a sazietà o qualcuno doveva fare la fame. Comincia a esserci un calo di natalità e un aumento generale del tasso di mortalità, il calo della produttività e l’insorgere delle carestie vennero causati da un repentino calo delle temperature, un clima più rigido e piovoso, l’avanzamento dei ghiacciai artici e alpini, l’innalzamento del livello del mar Caspio, il mar Baltico ricoperto di giaccio e in tutta Europa ci furono piogge torrenziali che duravano dalla primavera all’autunno, protendendosi fino alla successiva estate.
Ma, nel 1321, fu la scarsità di piogge a rovinare ancora di più i raccolti nell’Europa settentrionale, mentre la lunga siccità invernale nel Mediterraneo del 1373/74 provocò una primavera eccezionalmente piovosa.
Le crisi di sussistenza che l’Europa conobbe nel Trecento frenarono la crescita demografica e la resero più esposta alle epidemie, le quali, pur essendo state diffuse in territori ben circoscritti non avevano mai raggiunto una tale gravità come in questo periodo. Tutto questo fece peggiorare le già precarie condizioni igieniche delle città, una popolazione indebolita dalle carestie rendendo il terreno propizio al dilagare delle malattie e delle epidemie. In particolare fu violenta un’epidemia di vaiolo nel 1336 mentre, nel 1348, gli effetti disastrosi della peste bubbonica, la “morte nera”, furono paragonati a quello del diluvio universale. Quest’ultima, assente in Occidente dal VI secolo, vi giunse dal Medio Oriente dilagando prima in Italia, in Francia e in Spagna e poi in Inghilterra e in Germania, per poi raggiungere nel 1350 i paesi scandinavi.
Andando nello specifico non sempre si trattò di peste, ma gli effetti furono gli stessi se prendiamo una popolazione debilitata alla sottoalimentazione e dotata di scarse difese immunitarie alle malattie anche memo pericolose di per se, ma con già gravi conseguenze. Va sottolineato che le epidemie di peste, aggiunte alle altre malattie, non furono dello stesso tipo: prendiamo l’ondata del 1348 e del 1371 che colpì soprattutto gli adulti lasciando immuni molti bambini, mentre quella del 1360 colpì in particolare i giovani; questi effetti combinati – lasciando sì difficoltosa l’opera di recupero demografico – fecero in modo che, agli inizi del Cinquecento, si tornasse al livello generale della popolazione europea dei primi del Trecento.
Prendiamo nello specifico il 1348, non fu solo l’anno della morte nera, un disastroso terremoto che devastò la Carinzia, nell’Austria centro-meridionale, fu causa di circa diecimila morti. Va ricordato anche il terremoto nel 1349 nell’Appennino italiano (Montecassino, Isernia, nell’Aquilano… ).
Il focolaio dell’epidemia della peste – da studi recenti – è stato localizzato nel cuore del regno mongolo, precisamente nella regione del lago Balkhas (Kazakistan), da dove, seguendo la via della seta, avrebbe raggiunto Samarcanda nel 1341 e quindi la Crimea nel 1346. Quivi il suo passaggio è documentato con certezza dalle vicende della colonia genovese di Caffa, assediata dai Tartari, i quali avrebbero catapultato in città cadaveri di appestati, attuando una sorta di guerra batteriologica. L’anno dopo la peste è già a Costantinopoli, manifestandosi primariamente nel quartiere genovese di Pera – importata dalle galere genovesi provenienti da Caffa –; intanto le galee genovesi continuarono a diffondere il morbo per le città costiere del mediterraneo, attraccando prima a Pisa e poi a Genova. Resta ancora il mistero del fatto che abbia risparmiato una città come Milano, con il termine “risparmiato” si intende che abbia avuto dei contagi talmente minimali da non fare scoppiare una vera e propria epidemia all’interno della città.
La peste non abbandonerà l’Occidente fino all’ultima comparsa a Marsiglia nel 1720.

Questioni “proibitive”

Siamo nei primi del XIX secolo quando, per motivi morali, i predicatori protestanti iniziarono la lotta contro i liquori. Nel 1826 nacque l’American society for the promotion of temperance, dove riprese tale lotta e, vent’anni dopo, il Maine fu il primo ad approvare una legislazione proibizionista, imitato da altri dodici Stati del Nord nei primi del XX secolo.
Quando si trattano argomenti come il proibizionismo, di logica, la nostra mente ci porta agli anni ‘trenta del ventesimo secolo. Ma non perdiamo di vista che, questo argomento, è assai più complesso e ricopre uno spazio temporale molto più ampio. Il proibizionismo, a oggi utilizzato come, in generale, riferito a qualsiasi metodo legale per controllare la produzione, lo smercio e il consumo di bevande alcoliche, fino alla proibizione totale di tutte e tre le fasi – in particolare, la parola si riferisce al regime di proibizione assoluta adottato negli Stati Uniti dal 1919 al 1933 –, potrebbe essere collocato e ampliato su larga scala e non più confinata sul suolo Nord Americano.
La discussione a favore o contro il proibizionismo durava negli USA già da un secolo e regimi più o meno proibizionisti vigevano dall’inizio dell’Ottocento a livello locale (stati, contee o singoli villaggi), con restrizioni sulla produzione, sulle licenze sugli orari di vendita e le quantità. Una lotta che dovenne più accesa dopo la guerra civile, dove le donne erano divise tra coloro che lottavano per l’indipendenza e coloro, temendo che ciò accadesse, spingevano per una rigidità su molti più fronti.
Nacquero associazioni come Unione delle donne cristiane per la temperanza, il Partito proibizionista, l’Associazione per la temperanza. Nel corso degli anni la lotta agli alcolici fu fatta propria anche dai deputati progressisti dei partiti democratico e repubblicano; trascurando un dettaglio molto importante: il proibizionismo si rivelò disastroso, permettendo alle azioni criminali di diventare organizzate, soprattutto sull’utilizzo del contrabbando di alcool. Quivi prosperò il gangsterismo.
Il regime fu abolito dal presidente Roosevelt.
Ritorniamo indietro di qualche anno: siamo nei primi anni del novecento quando gli effetti dell’alcolismo resero inefficienti gli operai nella loro manodopera dove, già nel 1915, metà degli Stati avevano vietato il consumo di bevande alcoliche. Nacquero associazioni come American anti-saloon league, dove portarono all’approvazione diciottesimo Amendment act della Costituzione federale (gennaio 1919), cui seguì una legge federale (nota come Volstead Act dal suo proponente), con cui si definì come bevanda alcolica ogni liquido contenente oltre lo 0,5% di alcol (con eccezione di alcolici a scopo medico).
L’ipocrisia lanciata dal governo per un proibizionismo che poi, dimostratosi, a favore della criminalità organizzata, non mancò durante il primo conflitto mondiale quando la discussione del diciottesimo emendamento iniziò al Senato nel gennaio 1917, accelerata dalla dichiarazione di guerra alla Germania in Aprile per l’isolamento della rappresentanza di americani di origine tedesca, composta da wet.
Provocato un sentimento di ostilità, seguito da episodi d’odio, fu denso di conseguenze negative come: trasporto abusivo e la produzione illegale di liquori – consumati infine in una fitta rete di locali clandestini. Scontri fra violente bande rivali, di territori, etc…
Nel 1932 la vittoria elettorale portò all’approvazione del ventunesimo emendamento, che abrogava il diciottesimo e restituiva ai singoli Stati la libertà di decidere in materia di produzione e commercio di alcolici.

L’etimologia della parola Alcool deriva dall’arabo al-khul, ovvero il Kohl o Kajal: polvere finissima di antimonio o stibnite che gli Egizi si mettevano intorno agli occhi come protezione, o per annerire le sopracciglia (donde poi gli alchimisti dissero alcol ogni polvere essenziale o essenza in genere, utilizzato come un collirio oppure per ragioni cosmetiche).
Quando in occidente si introdusse la chimica araba e traslato la parola, è poi passata a significare una sostanza purissima, o un’essenza di qualcosa che tendeva a sublimare per diventare spirito. Ed è proprio in quest’ultima accezione che al-kuhl è passato nelle lingue europee, in cui, come per numerosi altri casi di vocaboli assimilati grazie a scambi culturali e scientifici con gli arabi il sostantivo si è fuso con il suo articolo; oggi indica tutti i composti organici in cui un gruppo ossidrilico (-OH) è unito a un atomo di carbonio saturato. Il loro contenuto semantico si sovrappone – per una fondamentale legge dell’evoluzione linguistica – è inevitabile che uno dei due soccomba o che, almeno, assuma accezioni semantiche diverse.
Si sa che Spiritus era per i Latini il soffio, il respiro, per poi diventare la parte più nobile delle cose (come l’anima, per esempio). Fu per questo che l’alcool prese nome anche come “spirito”, perché le sue caratteristiche, soprattutto con la sua tendenza a trasformarsi facilmente in vapore, si adattano perfettamente a questa ultima accezione della parola latina.
La brezza dello spirito che porta alla leggerezza: ed ecco che vengono le bevande spiritose per dare il via ad altri tanti termini.
Purtroppo il nazionalismo – passatemi il termine – tendeva a “nazionalizzare” le terminologie atte a indicare e ad avere tali origini straniere; la parola alcool non è entrata senza resistenze nella lingua italiana, non molto tempo addietro essa voleva essere italianizzata in alcole (plurale: alcoli).
A oggi, lingua corrente – lingua fit in ore vulgi – non ha accolto il suggerimento se non per il plurale alcoli, anche se alcole, comunque, continua a essere usato nei testi di chimica organica e nei giornali specializzati.

Gli alcolici si consumavano soprattutto nei saloon, punti di aggregazione, specie nei piccoli centri dei Territori dell’Ovest. I distillati come il whiskey erano diffusi anche come disinfettanti e medicinali; spesso si usavano per pagamenti in natura a causa della scarsità di moneta dopo la guerra di indipendenza. Spesso i saloon erano associati a una distilleria di cui vendevano le bevande in esclusiva; con la prima offrivano un pasto, di solito molto salato per invogliare a bere ancora. È una delle origini popolari per il detto there’s no thing like a free lunch (non esistono pasti gratis).
Gli alcolici si producono abbastanza facilmente dalla fermentazione di vegetali come cereali, ginepro, mele, etc… Alcuni non necessitano nemmeno di invecchiamento e sono facilmente trasportabili. Quando si rimaneva senza acqua a lungo venivano utilizzati come dissetanti senza avere dissenteria (per le situazioni igienico sanitarie di un tempo). A questo, i consumi divennero enormi, soprattutto nella seconda metà del secolo decimo nono. Abusare di questa sostanza creava dei problemi nella società: essa era la base di risse e violenze, di problemi di salute e anche di corruzione – molti politici chiedevano voti offrendo da bere, l’indipendenza dei nativi americani, etc…
Tutto questo portò le basi del proibizionismo, un termine contemporaneo che, per molti pareri, ha base anche moderna.
Le “proibizioni” della Chiesa con le sue inquisizioni portarono alla riforma con altrettante interdizioni, per poi sfociare in una controriforma e la svolta delle inquisizioni. Per la donna è sempre stato un mondo “proibitivo” dove, per poter essere libera si dava al “contrabbando” del proprio corpo. Non dimentichiamo le “prohibitio-onis” di una razza (la schiavitù negriera), che portò allo sterminio di altri popoli…
Il proibire ha sempre sfociato in un turbinio di: azione e reazione (una sempre più negativa e violenta dell’altra).
Il veto della libertà di una donna, di un popolo, dell’alcool, delle sigarette, della droga… hanno portato a violenze interne, sfruttamento, genocidi, organizzazioni malavitose.
La vita e la libertà sono importanti, ma non dimentichiamoci che la nostra libertà finisce quando inizia quella di un altro.

Unità e articolazione del Medioevo

L’idea di Medioevo nasce con l’Umanesimo italiano fra il XIV e XV secolo, individuando nell’itinerario della civiltà tre fasi, abbiamo: l’antichità classica, l’età di imbarbarimento e decadenza seguita dalla caduta dell’impero romano, l’età nuova da essi inaugurata e nella quale, grazie a loro, erano rinati i valori della civiltà classica. Ma gli umanisti francesi non potevano, infatti, condividere pienamente il disprezzo per i secoli nei quali si erano formate le loro istituzioni politiche, e lo stesso valeva per quelli tedeschi che vedevano in essi il momento dell’affermazione della loro nazione, grazie soprattutto dal ruolo svolto dall’impero.
I filosofi e i letterari esaltano il Medioevo come epoca di serenità spirituale e il Cristianesimo come forza creatrice dell’Europa, al centro del dibattito, soprattutto nella penisola italica, ci sta il rapporto tra latinità e germanesimo (soprattutto la questione longobarda) e il ruolo svolto nel corso del Medioevo dal papato, al quale Niccolò Machiavelli aveva dato la responsabilità di aver impedito l’unificazione della penisola: prima chiamando i Franchi contro i Longobardi e poi ostacolando qualsiasi altro tentativo di egemonia (tesi, questa, ripresa già nel Settecento dallo storico Giannone e ora fatta propria dai cosiddetti storici neo-ghibellini come Ranieri e Noccolini).
Nel papato si individuò una forza che svolse un ruolo negativo nel Medioevo italiano, ritrovando elementi di progresso in quei personaggi e popoli che operarono per l’unificazione politica italiana: Teodorico, i Longobardi, Federico II, Manfredi, Giovanni da Procida).
Il riscontro della contrapposizione si ha con i cosiddetti neoguelfi (Manzoni, Balbo, Capponi, Schupfer), i quali valutano in maniera opposta la funzione del papato nel Medioevo, riconoscendogli il merito di aver ereditato e custodito il patrimonio di Roma, il genio latino contro i germani.
Da qui partirà il nostro punto analitico, non trascurando un dettaglio importante: il Medioevo è germanico.
La rivalutazione del Medioevo non fu però un fenomeno limitato alla Germania e all’Italia, anche se con accenti diversi lo stesso avvenne anche in Francia e in Inghilterra, dove la cultura romantica accreditò un’immagine del Medioevo come età del sentimento, dell’irrazionale e della fede religiosa – prendiamo in esempio i romanzi storici di Walter Scott.
Iniziamo con la “caduta dell’Impero romano”, va specificato che non fu una fine ma una sua trasformazione in relazione alle condizioni nuove che vennero a determinarsi tra il III e il IX secolo in seguito anche all’arrivo di nuovi popoli nel territorio dell’impero, e senza che questi significhi automaticamente crisi o decadenza.
Arrivando all’età carolingia, la quale si configura non come l’inizio di una fase nuova, fu un tentativo dei sovrani franchi e sostenuto dalla Chiesa di dare un assetto definitivo all’Europa uscita dall’arrivo dei popoli barbarici e dal crollo delle istituzioni politiche romane: tentativo fallito, perché la società europea non era ancora in grado di fornire le energie materiali e culturali per sostenerlo, per cui fu necessario dopo il Mille ripartire con altre forze a altri protagonisti.
Il medioevo si divide in: Tarda Antichità (autunno del mondo antico), Alto Medioevo (secondo periodo), Pieno Medioevo (terzo periodo) e Tardo Medioevo (quarto periodo).
Nonostante la sua articolazione nei quattro periodi, il Medioevo fu innanzitutto un’età profondamente religiosa, in cui il messaggio di Cristo permeò tutta la vita politica e privata; si giunse così, da un latino, alla diffusione di sentimenti di solidarietà e alla nascita di istituzioni finalizzate all’esercizio della città, che costituivano una novità assoluta rispetto all’Antichità (diaconie, confraternite, ospizi-ospedali), dall’altro alla compenetrazione tra autorità politica e autorità religiosa. Nel mondo romano l’attività politica assorbiva in sé quella religiosa, per cui l’imperatore era anche il pontefice massimo del culto pagano, mentre in età Moderna le due autorità sono distinte. Nel medioevo, invece, esse si sostengono a vicenda per un fine che complessivamente è di carattere sacrale, trattandosi della salvezza eterna dei cristiani, dalla quali i governanti non potevano disinteressarsi (anche se la responsabilità di essa ricadeva soprattutto sui sacerdoti).
Questa concezione dei rapporti tra Stato e Chiesa – che già aveva cominciato a delinearsi nei pensieri di Sant’Agostino e di papa Gelasio I – fu compiutamente elaborato in età carolingia: collaborazione tra vescovi e funzionari politici.
Il sogno tra società cristiana retta in piena armonia dall’autorità politica e da quella religiosa finì con l’avvento del Trecento, il XIV e XV secolo sono effettivamente quelli della dissoluzione del Medioevo.
Un’altra componete importante della società medievale è lo spirito comunitario delle società germaniche. I Germani, infatti, quando vennero a contatto con il mondo romano, furono portatori di una civiltà che, per quanto influenzata da quella evoluta dei loro vicini, era pur sempre improntata a valori diversi da quella dei Romani. Essi erano sostanzialmente popoli di uomini in armi che, pur ammettendo al loro interno la preminenza di taluni individui e famiglie, non conoscevano le rigide gerarchie sociali dei Romani e la proprietà fondiaria – i Germani erano seminomadi –, bensì ai clan (uomini di più famiglie con un ascendente comune). Con l’insediamento all’interno dell’impero e il formarsi di estesi patrimoni fondiari a opera dei capi militari l’originario spirito comunitario dei Germani si affievolì progressivamente, ma non scomparve del tutto o, meglio, non scomparve senza lasciare traccia.

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