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Il mio primo articolo del blog

Sii te stesso; tutti gli altri personaggi hanno già un interprete.

— Oscar Wilde.

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La Seconda Guerra Sino-Giapponese

Siano nella prima metà del XX secolo, quando nel mondo cominciano a muoversi movimenti politici totalitari, dove l’idealizzazione di questi ultimi era dettata dalla fine della Grande Guerra.

I paesi che combatterono la Seconda Guerra Mondiale si schierarono all’interno di due opposte alleanze: quella dell’Asse e quella cosiddetta degli Alleati.

I tre principali membri dell’Asse furono la Germania, l’Italia e il Giappone. Queste tre nazioni insieme riconoscevano il diritto della Germania di possedere gran parte dell’Europa continentale, all’Italia quello sul Mediterraneo e al Giappone sull’Asia orientale e sul Pacifico.

Siamo nel novembre 1936, una settimana dopo aver firmato un patto d’amicizia, la Germania e l’Italia annunciarono la creazione dell’Asse Roma-Berlino: dove come obiettivo era destabilizzare l’ordine europeo. Il 25 novembre 1936, la Germania Nazista e l’Impero del Giappone firmarono il cosiddetto Patto Anti-Comintern, esso andava contro l’Unione Sovietica; l’Italia si unì il 6 novembre 1937. Ricordiamo che il 22 maggio 1939 la Germania e l’Italia firmarono il Patto di Ferro, il quale rafforzava l’alleanza dell’Asse con disposizioni di natura militare. Infine, il 27 settembre 1940, Germania, Italia e Giappone firmarono il Patto Tripartito che divenne noto come l’Alleanza dell’Asse.

Questi avvenimenti andarono di pari passo con la seconda Guerra Sino-Giapponese (1937-1945), la quale fu combattuta tra Cina e Giappone e fu la più grande guerra in Asia del XX secolo.

Questo conflitto ha come responsabile l’espansione coloniale giapponese e gli ideali nettamente nazionalistici in Cina, dove già al suo interno vi erano degli scontri tra ideali politici differenti.

La tensione, o meglio la scusante, che ha portato a questo conflitto ha le sue radici nella prima Guerra Sino-Giapponese, avvenuta quasi tre decenni prima.

Dopo la prima Guerra Sino-Giapponese, una ferrovia in Corea utilizzata per rifornire le truppe giapponesi, che attraversava anche una parte della Manciuria, ebbe un incidente. Nel 1931, alcune truppe giapponesi attaccarono quelle cinesi nella zona, usando come scusa un falso attacco alla ferrovia. I combattimenti si diffusero e in poco tempo il Giappone controllò gran parte della Manciuria. L’impero nipponico ribattezzò l’area Manchukuo e mise in atto un governo cinese fantoccio – come i nazisti fecero in Francia –, dove l’esercito giapponese poteva mantenerne il potere da dietro le quinte.

La resistenza cinese si coalizzò molto dopo per combattere un nemico comune, il Giappone. Inizialmente era troppo impegnata a lottare tra di loro in una sorta di guerra civile tra due fazione: i Nazionalisti e i Comunisti.

Il Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente, in seduta a Tokyo tra il maggio del 1946 e il novembre del 1948, dichiarò ventidue capi giapponesi colpevoli di cospirazione per aver mosso una guerra aggressiva contro la Cina.

La Guerra Sino-Giapponese fu il risultato dell’aggressione di tale paese, questo modello d’attacco si può fare risalire alla Grande Guerra. La soperchieria riprese con l’aggressione nel 1931 in Manciuria, dopo aver creato lo stato di Manchukuo il Giappone si stabilizzò nella Cina del nord e nella Mongolia Interna. La scusante fu l’incidente al Ponte Marco Polo, per poi cogliere la palla al balzo e portare il Giappone a dichiarare guerra alla Cina, invadendola soprattutto nella parte costiera.

È palese come la causa principale di queste vessazioni avvenne per mano del Giappone, ma il ruolo del nazionalismo cinese non fu da meno, soprattutto nel far precipitare il conflitto.

La contesa e la guerra che vinse contro Cina e Russia permise al Giappone di annettere la Corea come colonia, fomentando il nazionalismo di quest’ultima. Anche il nazionalismo cinese assunse un aspetto ben più minaccioso sotto gli occhi dell’impero nipponico, soprattutto quando la Cina fu frammentata da disordini interni e da degli scontri tra nazionalisti e comunisti.

Il Giappone avanzava mentre Chiang Kai-shek (Jiang Zhongzheng, politico e militare cinese nazionalista) continuava la sua continua ricerca della guerra civile contro i comunisti e viceversa. I comunisti sfruttarono le opportunità d’avanti all’aggressione giapponese ma, infine, di fronte al disastro che il paese stavo subendo per mano di tutti (nazionalisti, comunisti e giapponesi), le due fazione all’interno della Cina – siamo nel 1936 – decisero di sospendere la guerra civile per creare un fronte unito per la resistenza all’invasione nipponica.

La seconda Guerra Sino-Giapponese (1937-1938 sfociata nella Seconda Guerra mondiale finendo nel 1945) scoppiò a seguito di un incidente presso Lugouqiao (il Ponte Marco Polo), ed era il 7 luglio del 1937. I soldati giapponesi di guardia nell’aria credettero di essere attaccati dalle truppe cinesi, assaltando anch’essi la città di Wanping.

Inizialmente il Giappone cercò di sottolineare che fu un disguido, in un secondo momento, a causa delle sue mire espansionistiche che voleva realizzare all’interno del territorio cinese, lo portò a superare il punto morto.

Uno degli episodi più significativi fu il “saccheggio di Nanchino”.

I comportamenti poco umani dei giapponesi nei confronti della popolazione cinese a Nanchino portarono il resto del mondo a non valutare più il Giappone con un certo riguardo: il saccheggio di Nanchino, seguito da violenti stupri, fu l’episodio più vergognoso di una guerra nella quale la brutalità giapponese nei confronti della popolazione cinese costituì una caratteristica notevole. La reputazione internazionale nei confronti del Giappone fu danneggiata quando i fatti vennero resi pubblici. A bruciare interamente sono state una città, i raccolti, le persone e lo stupro di massa; l’ordine fu di radere al suolo Nanchino senza fare prigionieri.

Perché come guerre sono importanti la prima e la seconda Guerra Sino-Giapponese?

Perché con esse – soprattutto con la seconda Guerra Sino-Giapponese nel 1937 –, vi fu l’alba della Guerra nel Pacifico che incendiò Pearl Harbor e tramontò con Hiroshima e Nagasaki.

La Cina vista con occhi storici

Rimarcando quanto sia errato attualizzare la storia e, sebbene sembrerebbe logico farlo, ancor più inadatto è europeizzare la storia dei paesi situati in estremo oriente, prendiamo la Cina all’inizio dell’epoca Contemporanea, quando tra il 1895-96 dovette subire una dura sconfitta durante la guerra Sino-Giapponese; anche se questi due paesi stavano aprendo le porte agli imperi occidentali, non avevano niente a che vedere con i pensieri ereditati dalla corrente culturale che si era affermata in Europa tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento: il Romanticismo.

La prima ragione dello scoppio della Guerra Sino-Giapponese fu la rivalità tra i due paesi in Corea. Un rapporto analogo descritto come quello tra padre e figlio, o tra fratello maggiore e quello minore, veniva diretto nella questione coreana dove quest’ultima manteneva un contatto limitato con il governo giapponese, perché gli obblighi morali richiedevano un coinvolgimento diretto della Cina. Per il resto la Corea fu isolata dal punto di vista diplomatico, da qui l’epiteto occidentale di “regno eremita”.

Dopo la Guerra dell’oppio in Cina e l’apertura del Giappone per mano degli Stati Uniti (1853), la Corea finì sotto una crescente pressione per lasciare entrare l’attività commerciale e religiosa dell’occidente. Questo causò una persecuzione verso i cristiani e l’uccisione di alcuni missionari francesi, siamo nel 1866, da qui iniziarono mal contenti e atti di violenza anche contro navi straniere proveniente dagli Stati Uniti. La corte coreana cominciò a sviluppare delle fazioni che assunsero delle posizioni che appoggiavano la questione dell’isolamento, della riforma e dei rapporti con Cina e Giappone.

Nel 1873 di fronte agli insulti da parte della Corea, il Giappone minacciò quest’ultima di inviarle una spedizione se non avesse cessato. Nel 1876 la Corea firmò un accordo ineguale con il Giappone, nel quale apriva tre porti coreani al commercio.

Nel 1891 la Russia, che per trent’anni era stata inerte riguardo i suoi interessi asiatici, cominciò a costruire la ferrovia Transiberiana; allo stesso tempo l’interesse verso la Corea era per l’importanza come mercato per i prodotti tessili giapponesi.

L’ascesa del movimento anti-stranieri, l’assassinio del nazionalista coreano Kim Ok-kyun e il trattamento del suo cadavere, provocarono intensi sentimenti in Giappone, descritto come martire dell’arretratezza cinese. Questo fornì alla Cina e al Giappone il pretesto per inviare truppe in Corea.

Il Giappone dichiarò guerra alla Cina il primo agosto del 1894.

La Cina era convinta di vincere, ma si dimostrò uno scontro che palesò tutte le debolezze e i limiti del programma di auto-consolidamento. Per concludere la guerra fu costretta ad accettare gli umilianti termini del Trattato di Shimonoseki nel 1895: con esso riconosceva l’indipendenza della Corea, Taiwan e le isole Penghu venivano cedute al Giappone, come la penisola del Liaodong nella Manciuria meridionale. Infine il Giappone ebbe anche i diritti accordati alle potenze occidentali con i trattati ineguali.

Con la sconfitta della guerra Sino-Giapponese e i vantaggi ottenuti dal Giappone con il trattato di Shimonoseki, fecero precipitare l’accresciuta richiesta di privilegi quando veniva definita la “contesa della Cina”. Ma la Russia non rimase con le mani in mano, avendo paura del potere che potesse prendere il Giappone acquisendo un punti d’appoggio in Manciuria, sulla quale aveva già dei progetti, ottenne il sostegno di Francia e Germania per la richiesta di restituzione della penisola di Liaodong; il governo Giapponese d’innanzi alla minaccia di un bombardamento russo, accettò e acconsentì a un risarcimento maggiore – il ricordo di questa umiliazione pubblica porterà all’avvento della guerra tra i due paesi dieci anni dopo (questo conflitto, Sino-Giapponese, rese tanto evidente la degradazione della Cina a oggetto delle grandi potenze quanto la guerra russo-giapponese nel corso della quale, fra il 1904 e il 1905, più di due milioni di soldati stranieri si affrontarono in sanguinose battaglie sul territorio di uno stato neutrale).

Dopo l’unificazione dello stato tedesco, il suo interesse fu verso una spinta al potere mondiale, giungendo ad avvincere dell’attività economica in Cina, la Russia voleva i suoi interessi sul commercio e in egual modo anche la Francia; riservato il caso della Gran Bretagna, la quale si assicurò l’amministrazione per novantanove anni nell’aria della terra ferma di fronte a Hong Kong.

L’importanza della guerra Sino-Giapponese porterà al Nazionalismo e alla fine della Cina imperiale: le riforme dei Cento Giorni del 1898, la rivolta dei Boxer del 1900-1901 e le innovazioni apportate dall’impero mancasse, le quali contribuirono a un ulteriore sviluppo del sentimento nazionalista (da non confondere con quello europeo). Viene sempre suggerito che il nazionalismo, che denota l’identificazione della Cina come uno stato-nazionale e un interesse per la sua sopravvivenza e il suo benessere, vi fosse sconosciuto fino alla fine del XIX secolo. Ma fino a quell’epoca, i cinesi, erano politicamente consapevoli dell’identificazione del proprio interesse con l’integrità della cultura confuciana, non con la sopravvivenza dello stato.

Anche la spinta anti-Mancesi era una parte di questa identificazione, i mancesi non erano cinesi. Sebbene i Mancesi giunsero a identificarsi strettamente con la cultura confuciana, questa tradizione di resistenza a loro non scomparve del tutto: “opposizione agli stranieri”. Questo punto fu chiaro durante la Guerra dell’Oppio. Tutto questo incluse la xenofobia e il razzismo non molto lontano dagli ideali europei, la guerra provocò anche un sentimento che potrebbe essere descritto come proto-nazionalismo.

Una terza componente di Nazionalismo emerse durante un dibattito, in cui si proponeva una possibilità di cambiare la Cina per affrontare la minaccia proveniente dal mondo esterno. A un certo punto di crisi nella storia cinese apparve una dicotomia tra i sostenitori del mutamento pragmatico e coloro che volevano restare fedeli ai valori confuciani.

“Chi conosce il suo nemico e conosce se stesso potrà affrontare senza timore cento battaglie. Colui che non conosce il nemico ma conosce se stesso a volte sarà vittorioso a volte incontrerà la sconfitta. Chi non conosce né il nemico né se stesso inevitabilmente verrà sconfitto in ogni scontro” (Sun Tzu).

Fonti: J.A.G Roberts, University of California Press Berkeley, William G. Beasley, John E. Schrecker, Robert Lee, Jerome B. Grieder.

Frammenti storici cinesi

Sarò breve nel descrivervi la prima Guerra dell’Oppio, la quale venne combattuta tra il 1839 e il 1842 opponendo la Cina e la Gran Bretagna. Essa fu conclusa dal Trattato di Nanchino, il primo di quelli che saranno descritti come i trattati ineguali. Un secondo conflitto si verificò tra il 1856 e il 1860, questa volta coinvolgendo anche la Francia.

L’importanza di queste due guerre sottolinea il contrasto culturale tra Oriente e Occidente, un problema che si protrae da tempo e che mise molti storici in netto contrasto tra di loro.

Il Trattato di Nanchino fu il primo di una serie di accordi fatti tra la Cina e gli stati dell’Occidente, prefigurandone di simili conclusi con il Giappone, la Corea, il Vietnam e il Siam (l’odierna Thailandia); questi trattati presero il nome di ineguali in quanto apportavano benefici all’Occidente senza offrirne di reciproci agli stati asiatici.

Questo accadeva tra la Cina e il mondo attorno a lei, al suo interno, tra il 1796 e gli anni Settanta del 1800, si verificarono una serie di ribellioni che quasi rovesciarono la dinastia Qing. Quest’ultima non era una dinastia cinese ma mancese, anche gli abiti tipici di questa dinastia lo dimostrano: la testa rasata e il codino intrecciato non appartenevano alla moda cinese di un tempo.

La prima rivolta fu quella del Loto Bianco, seguì un periodo di calma fino a quando cominciò la maggiore delle ribellioni; la più devastante fu quella di Taiping concentrata soprattutto a Nanchino. Importanti rivolte di musulmani minacciarono una separazione di certe aree all’interno del regno, e fu sempre in questo periodo che esplosero società segrete facente parte della Triade, la rivolta dei Turbanti Rossi e a seguire un violento scoppio di conflitti etnici tra i gruppi dialettali cinesi nel Guangdong occidentale e insurrezioni dei Miao nel Guizhou.

L’origine delle rivolte è collegato al declino della casa regnante, gli studiosi confuciani lo interpretarono storicamente come il ciclo dinastico: l’autorità confermata dal trattato del cielo. Qualche storico moderno ha interpretato tale spiegazione: all’inizio di ogni dinastia c’è sempre chi la fonda ed è rappresentata da un uomo valido, vigoroso, efficiente nella burocrazia e che espande l’impero; tuttavia, la fase successiva, tenere sotto controllo un territorio così vasto aveva dei costi troppo elevati, accrescendo la corruzione, i militari non erano capaci di proteggere le frontiere lontane, il carico fiscale si posava sempre su coloro che avevano difficoltà di farvi fronte ridestando il malcontento contadino e quindi il preludio della nascita di rivolte.

La storia della Cina fu ripartita in sezioni dinastiche, ciò è in contrasto con la tradizione storica occidentale, la quale tendeva a percepire gli eventi come una progressione lineare piuttosto che come una ripetizione ciclica. Questo ha condotto alcuni storici occidentali a criticare il concetto ciclico perché costituiva un ostacolo alla comprensione della dinamica fondamentale della storia cinese e a tentare di sostituirlo con interpretazioni lineari.

Fortunatamente non ci sono riusciti.

L’esempio più ovvio è il punto di vista marxista, con la sua presupposizione – presuntuosa – implicita che tutte le società umane seguono lo stesso percorso verso l’alto, da quella primitiva passando dalla schiavitù, fino al feudalesimo, al capitalismo, al socialismo e infine al comunismo. Non è mai stato facile – persino per i marxisti convinti – applicare efficacemente questa progressione all’esperienza cinese.

Un altro errore attribuito alla storia cinese è la sua divisione (togliendo la storia contemporanea) in storia antica, medievale e moderna, diventata così radicata nell’opinione occidentale sullo sviluppo della civiltà europea. La società cinese è fondamentalmente diversa da quella dell’Occidente, con l’avventi dell’illuminismo venne costituita un’opinione ostile verso questo regno e il suo percorso storico, per poi diventare favorevole durante il XX secolo. Il più famoso esponente dell’opinione negativa nei confronti della Cina lo troviamo nel XIX secondo in Karl Marx, la sua interpretazione della società asiatica fu che essa era sia diversa che inferiore a quella Europea.

In occidente è stato a lungo supposto che la civiltà cinese non avesse preistoria, fortunatamente tale ipotesi fu scartata nei primi del ‘900 grazie all’archeologia e alle nuove scoperte.

Quindi, oltre a errare nell’attualizzare la storia in generale, altrettanto sbagliato è mettere ogni popolo con il suo passato nello stesso piano con il resto del mondo.

La guerra di Crimea

In poche righe la guerra di Crimea, o guèrra di Conflitto per il controllo dei Balcani e del Mediterraneo (1853-56), oppose la Russia all’Impero ottomano, sostenuto da Francia e Gran Bretagna (con l’appoggio di un corpo di spedizione piemontese). 

I turchi dichiararono guerra ai russi, il 4 ottobre del 1853 i turchi assediarono Sebastopoli, massimo porto russo sul Mar Nero.

Facciamo qualche passo indietro: all’inizio del XIX secolo, quando era in corso l’epopea napoleonica, la Russia di Alessandro I perseguiva una sua politica di espansione territoriale. In questi anni vennero annessi la Finlandia, la Bessarabia e diversi paesi caucasici sottratti alla Persia. Al tempo stesso l’Impero russo diede prova della sua solidità sociale e militare, resistendo all’attacco di grande portata da parte di Napoleone I.

Grazie alla vittoria russa nei confronti di Napoleone I, Alessandro I si assicurò il controllo della Polonia durante il Congresso di Vienna.

Alla morte di Alessandro I la sua linea politica venne continuata dal figlio Nicola I, con una tenace opera di espansione coloniale versi sud e verso est. Intorno alla metà del secolo avrà tutto il controllo nella zona a est del Mar Caspio e Vladivostok (sottratta alla Cina tra il 1858 e il 1860). Invece nel 1867 l’ideale espansionistico verso l’America del Nord venne abbandonato con la vendita dell’Alaska.

L’ampliamento territoriale va da sé che era accompagnato da un accrescimento demografico. Le aree orientali, dagli Urali alla Siberia, erano quasi spopolate, mentre la maggior parte della popolazione si concentrava nelle campagne e poche nelle città importanti della Russia europea. Le campagne erano anche il cuore economico del paese, in particolare la produzione di grano e la sua esportazione verso i paesi europei. La Russia della seconda metà dell’800 si presentava come la più pura delle autocrazie amministrative: un Impero governato dallo zar, coadiuvato dal Comitato dei ministri e dal Consiglio di Stato; territorialmente ampio, impegnato in una continua espansione militare e che necessitava di un continuo bisogno di risorse, raccolte attraverso un invadente drenaggio fiscale. Una situazione di questo tipo generò instabilità e conflitti, soprattutto attraverso le rivolte contadine.

Un ennesimo passo falso compiuto da Nicola I fu il tentativo di conquistare la Valacchia e la Moldavia messo in atto nel 1853, e che ne conseguì la guerra di Crimea nella quale la Russia venne sconfitta. Sarà proprio questa sconfitta a convincere il successore dello zar, Alessandro II, a tentare di realizzare un ambizioso piano di riforme dall’alto.

Bisogna ricordare che intorno al 1853, nei Balcani, intorno al Mar Nero, in Grecia e anche a Istanbul, molte popolazioni di fede cristiana ortodossa vivevano da secoli sotto il dominio secolare dell’Impero Ottomano. Dalla caduta di Costantinopoli la Russia si sentiva in dovere non solo nella difesa e protezione verso le popolazioni appartenenti alla tribù slava, si sentiva anche in dovere di ereditarne il ruolo di centro del Cristianesimo Ortodosso. Questo spinse lo zar Nicola I a chiedere al sultano di riconoscere formalmente tutti i suoi sudditi di fede ortodossa, di riflesso tutti i luoghi sacri della Cristianità che da tempo erano sotto l’Impero ottomano, siano sotto la protezione dello Zar. Naturalmente il sultano rifiutò la richiesta.

Dopo l’occupazione di Valacchia e Moldavia le potenze d’Europa, in particolare Francia e Inghilterra, si rifiutano di legittimare le pretese russe incoraggiando il sultano a reagire.

Napoleone III, nipote di Napoleone Bonaparte, aveva portato la Francia al Secondo Impero. Dopo il Congresso di Vienna del 1814, le potenze Europee avevano conservato un assetto territoriale relativamente stabile, ma nel 1853 l’intervento russo nel Mar Nero sembra alla Francia un pretesto perfetto per entrare in scena e vendicarsi di quest’ultimi, per la sconfitta subita da suo zio. Fu per questo motivo che entrò in gioco, sebbene in piccola parte, anche l’Italia (a quei tempi Regno di Sardegna e non ancora unificata), nello specifico le truppe piemontesi (in cambio avrebbero ricevuto un appoggio della Francia per la questione risorgimentale italiana).

Gli interessi della Gran Bretagna erano di proteggere e difendere i suoi commerci sul Mar Nero, i quali le garantivano un facile accesso alle sue colonie in india; invece, come abbiamo già annotato, la Francia di Napoleone III era alla ricerca disperata di gloria militare. L’intervento del Regno di Sardegna, una giovane potenza che ambiva all’unificazione d’Italia, avvenne quando Francia e Inghilterra chiesero di inviare una delegazione di 18.000 uomini per la Guerra di Crimea, Cavour fu ben felice di acconsentire.       

La durata prevista dell’assedio era di dodici settimane, ma ci sarebbero voluti invece dodici mesi per concludere la Guerra di Crimea.

Vi furono molte vittime tra le truppe piemontesi, in parte persero la vita nell’assedio di Sebastopoli sotto il comando di Alfonso Lamarmora, altri di loro morirono negli scontri con i Russi, altri, circa 2000, per una terribile epidemia di colera. Ma il sacrificio non fu vano, sebbene furono sconfitti, con la disfatta della Russia al termine della Guerra di Crimea, il Regno di Sardegna verrà ammesso in qualità di stato vincitore alla Conferenza di Parigi del 1856.

Ci furono pochi scontri frontali durante l’anno della guerra, molti soldati morirono più per l’epidemia di colera che per le armi da fuoco; ma nella primavera del 1855, le truppe Inglesi, francesi e italiane aprirono una breccia a Sebastopoli. Dopo un ultimo, disperato contrattacco, i Russi evacuano la città. Si conclude così un assedio durato un anno, e con esso la Guerra di Crimea, seguita in tutta Europa grazie all’avvento del telegrafo: per la prima volta le notizie dal fronte giunsero quasi in tempo reale.

Le ostilità della guerra di Crimea si conclusero con il Trattato di Parigi, firmato il 30 marzo del 1856.

Unione intesa come società religiosa

Il concetto di unione che oggi abbiamo rispetto ai tempi che furono, anche se ne ha le basi di un’antichità oramai passata e, ci tengo a sottolinearlo, dimenticata, è un’idea, un’ideologia e un’ideale che non ha molto a che fare con il pensiero di un tempo. Spesso tralasciamo il fatto che quello che oggi disdegniamo un tempo era la modernità, il valore comune e ciò che meglio poteva essere per la società. Quella che nei primi del Novecento venne definita come vecchia Vienna, un tempo era la modernità e lo splendore assoluto. Amare la storia, scrivere di storia, leggere la storia e assaporarne tutta la sua essenza, significa volgersi al passato. Per chi ne è veramente appassionato e ne fa il sua vita, questa non può essere una semplice evasione. La storia non è una fiaba, essa significa confronto, verifica e ricerca di identità; ma ricordiamo che la storia non è nemmeno memoria, è disciplina e la razionalizzazione di essa.

I nostri stessi interessi per un passato remoto sono ben radicati nel nostro presente, va di logica che si pensa sempre al passato in funzione del presente, ma la storia non va attualizzata; quest’ultima parola, attualizzare, è nemica della storia. Chi è storico ed è serio nella suo lavoro è conscio che l’attualizzazione è cattiva consigliera: apre la strada all’anacronismo e all’uso strumentale del passato.

Anche uno storico delle religioni, in quanto la religione ha sempre avuto un ruolo fondamentale per la società antica, per le tribù, per un impero non trascura questo fatto. Questa non è solo da collante per un intero popolo, ma ci ha educati e identificati per tutta l’evoluzione della specie umana e, soprattutto, per l’unione che ne simboleggiava. Le religioni è le scienze delle religioni, una scienza comparativa che si interessa alle diverse religioni e alle loro rappresentazioni, usanze e comunità. Mentre la teologia si interessa principalmente alla riflessione sulla fede cristiana dall’Antico Testamento fino a oggi, in un’ottica soprattutto diacronica, le scienze delle religioni portano a confronti tra le diverse religioni da un punto di vista quasi sempre sincronico.

La ricerca storica non postula la religione come un fenomeno unico e monolitico, ma va constatata in base alle diverse culture umane e che presentino ciascuno una propria distinta individualità. Tralasciando il metodo deduttivo, il procedimento storico utilizza il metodo induttivo, mosso dall’esame di concreti fatti storici; percependo la differenza sussistente fra un contesto come quello Cristiano da una parte, e dall’altra un fenomeno riconoscibile presso oltre popolazioni illetterate. Abbiamo un unico Dio, creatore di tutte le realtà, sia invisibile che visibile, trascendente rispetto alla sua creazione, che garantisce i valori etici regolamentari della vita umana e abbiamo la credenza nell’esistenza di una molteplicità di entità non umane o sovrumane, considerate presenti nell’ambiente in cui l’uomo vive e capaci di influire a vario titolo su di lui.

Uno definito tradizionalmente come monoteistico, ossia fondato sulla nozione dell’esistenza di un unico Dio, l’altro, caratterizzato dalla presenza di una purità di entità, è ricostruibile nei contesti tradizionalmente nominato politeistico. Nella società antica, fino ad arrivare a quella moderna (non contemporanea), nel corso della storia verso un unione europea, esse hanno influito sia in senso negativo che positivo.

L’importanza del fenomeno religioso si caratterizza anche per la sua natura di un dato tradizionale all’interno di una comunità, coinvolgendo il singolo e l’intero gruppo sociale nella credenza e nel culto, creandone un punto di unione nell’identificazione dell’intera tribù, società, dell’intero popolo. Sono atti rivolti a entità di un livello diverso da quello umano, ma che è capace di influire sulla vita dell’uomo e sullo scenario in cui si muove.

Che lo si accetti o no, le religioni (monoteista e politeista) sono importanti per quanto riguarda il percorso storico della progressione umana nella sua civiltà.

Spesso, erroneamente, le religioni sono associate solo alla fede, vedute come un sistema negativo per la società e la libertà dell’essere umano; a causa di questi pregiudizi e dell’attualizzazione delle società di un tempo si casca in questo errore. In realtà questo collante della società, la fede collettiva, in entità sovrannaturali e moralizzatrici è una conseguenza dello sviluppo di civiltà strutturate. Entità superiori che si occupano della moralità dell’uomo, proteggono i virtuosi e puniscono i trasgressori, questo era quello che rappresentavano le religioni di un tempo, di riflesso erano non solo le leggi divine ma anche terrestri.

Le piccole società tradizionali (quelle che un tempo, e da una ingenerosa prospettiva, sarebbero state definite pagane) credevano in divinità che poco si occupavano delle faccende umane, ma che, invece, i fedeli le dovevano venerare e ottemperare le offerte rituali.

Le società di un tempo erano caratterizzate da piccole tribù, o piccole comunità dove un comportamento scorretto o diverso (poco cooperativo) veniva subito notato. Ma quando i siti diventano città, o comincia ad aumentare la popolazione e questa ha dei contatti con altre popolazioni, ecco che l’avere a che fare con gli estranei comincia a diventare complesso, soprattutto  l’identificazione di atteggiamenti antisociali. Per tenere sotto controllo la situazione, per facilitarne la collaborazione e la cooperazione, comincia a nascere la necessità di un nuovo sistema di sorveglianza, o che comunque atto a tenere in comunione l’intera società, la nascita, la teofania e l’epifania di un vecchio che sorvegli dall’alto, diventato indispensabile e fondamentale.

Le società complesse dove da secoli ci hanno portato a chiederci come mai l’essere umano è una specie animale dove è indispensabile la collaborazione e l’unione in gruppi di individui geneticamente associato. I fattori come l’agricoltura, la guerra e le religioni sono correlati tra di loro. Questa fede in divinità naturali rappresentava il concetto di lealtà e fedeltà, queste divinità, possiamo chiamarle anche moralizzatrici, vennero con l’incremento della popolazione e quindi la necessità di allargare il territorio. Quindi, la fede in entità sovrannaturali capaci di giudicare e punire è comparsa soltanto dopo la transizione da società semplici a complesse; i rituali con la loro regolarità sono iniziati molto prima, sviluppandosi centinaia di anni prima delle grandi divinità moralizzatrici. Questi riti di gruppo possono aver agito come collante, rendendo la tribù o la piccola civiltà cooperativa e unita tra loro portando, di riflesso, a un senso di appartenenza a una realtà più grande.

Non lontani sono gli elementi che corrispondono e ci inducono ad attribuire alcune corrispondenze agli Indoeuropei, una teologia che, prima della loro dispersione, ha la struttura imperniata sulla sovranità, forza e fecondità. Tutto diviso in riti e credenze con miti e ideologie, in funzione della punta del triangolo che è l’oggetto di fede: un universale culturale.

Fatto sta, le definizioni che diamo a oggi del fenomeno religioso non possono essere corrette perché la storia non va attualizzata, ma possono avere un tratto comune: ciascuna contrappone, a suo modo, il sacro e la vita religiosa al profano e alla vita secolare; ma è quando vogliamo delimitare la sfera della nozione di sacro che iniziano le difficoltà. Le difficoltà sono di carattere storico, pratiche, quasi dappertutto ci troviamo di fronte a fenomeni religiosi complessi, i quali presuppongono una lunga evoluzione storica.

Il sacro si manifesta sempre in una certa situazione storica, quindi siamo in presenza di ierofanie (le manifestazioni del sacro), l’esperienze mistiche subiscono sempre l’influenza del mondo storico.

Dai profeti ebraici, i quali sono debitori degli avvenimenti storici. La venerazione di un albero in un certo posto presso una specifica popolazione (esempio gli indiani), non è solo una manifestazione del sacro, questa ierofania non è solo storica ma anche locale.

Per ricostruire le religioni germaniche o slave bisogna ricorrere a documenti folclorici, in questo caso va anche accettata la loro interpretazione: un iscrizione runica, un mito molto antico e da molti secoli non più compreso, monumenti protostorici, riti e leggende popolari. Se partissimo dai primitivi capiremo che la vita religiosa di questi popoli era relativamente complessa, che non la si può ridurre all’animismo, al totemismo o al culto degli antenati, in quanto ha la conoscenza di Esseri  Supremi dotati di tutto il prestigio del Dio creatore e onnipotente.

In ambito cristiano-occidentale si intende col termine «religione» un complesso organo di credenze, di istituzioni, di pratiche rituali e di comportamenti etici che riguardano il rapporto dell’uomo con Dio e con il livello sovrumano e divino. Confrontando un autore romano del I secolo a.C. e alcuni cristiani del II e V secolo d.C. possiamo constatare come questa definizione sia il frutto di un lungo processo storico e implichi profonde trasformazioni di senso.

La definizione cristiana di religione si ha soprattutto con le opere di Agostino, Lattanzio nelle Divinae institutiones oppone il termine religio da relegere a quello che invece lo fa derivare da religare. Questo confronto/scontro su due diverse maniere di porsi dinnanzi a quel livello, altro, dall’uomo legittima ciò che definiremo del divino (dati i contesti culturali che utilizzano il termine deus/dii).

Cicerone, invece, spiega l’attributo di religious in rapporto all’individuo che assume un atteggiamento accurato ed esamina tutta la complessità d’azioni umane che hanno come oggetto quegli esseri sovrumani, che nel suo ambiente culturale sono gli dèi.

La derivazione proposta dal verbo relegere all’aggettivo religious e dell’etimo religio qualifica e ci chiarisce l’orizzonte religioso dell’antica Roma. 

Con Evemero di Messina (III secolo a.C) – che abbiamo appunto la definizione di evenerismo – sarebbe derivata la divinazione dell’individuo di antichi uomini: autori di invenzioni benefiche per la vita umana. Questa divinazioni la troviamo, molto probabilmente, anche in persone rese poi divinità nelle tradizioni norrene, dove il personaggio o i personaggi in questione dimostrano di possedere certe caratteristiche che sono alla base di certe tradizioni. Questa moltitudine di dèi li rivestita di sembianze e forme umane, fornirono materia nelle leggende dei poeti ma hanno anche riempito la vita umana di ogni forma di superstizione; è fondamentale analizzare quest’ultima parola: la superstitio si propone come conseguenza di un’errata concezione del divino. A oggi assume un significato negativo, mentre un tempo – superstitio da di superstāre ‘stare sopra’, ‘ciò che sta sopra, che costituisce una sovrastruttura’ – era un atto stravagante di praticare un culto nel falso concetto di attirare a se il favore degli dèi, in queste pratiche si riponeva soverchia fiducia o timore verso le divinità stesse. Cicerone afferma che si definiva superstizione colui o colei che di continuo stancava con voti e sacrifizi agli dèi, così che sembrassero superstiti, sani e salvi, e lungamente in vita i propri figliuoli. Quelli che tutti i giorni pregavano gli dèi e facevano sacrifici affinché sopravvivessero a loro stessi, furono chiamati superstiziosi, parola che in seguito assunse un significato più ampio; mentre coloro che ripercorrevano con curo tutto il rituale degli dèi furono chiamati religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere), diligente da diligere (prendersi cura di), intelligente da intelligere (comprendere).

Quindi legere che è in religiosus.

Il timore è alla base dell’atteggiamento del superstizioso, colui che commette continui sacrifici per la salvezza del proprio figlio.

La religione e le religioni – un fenomeno dal punto di vista paradossale, che ci piaccia o no, noi viviamo in una società caratterizzata dal pluralismo religioso –, hanno un elemento identitario molto forte tra le varie tradizioni religiose. I processi di secolarizzazione hanno portato dopo la rivoluzione francese (tra ‘700 e ‘800) a un distacco dalle religioni istituzionali. La secolarizzazione riduce la religione a un fatto privato, a una scelta personale che non deve più avere in una situazione di laicità di una toto un’incidenza; fino ad arrivare a una società odierna dove vive in un pluralismo religioso. Oggi l’elemento primario della religione è l’individualismo, oggi si sceglie a livello individuale non solo la propria vita, ma anche il nostro credo o, semplicemente, di non credere a niente; questo è l’esempio tipico dei processi di secolarizzazione.

Quando utilizziamo la parola religione, non ci rendiamo conto che usiamo un termine che ha una storia millenaria, dove si sono accumulati e sedimentati tanti significati che ne rendono l’uso estremamente complesso e difficoltoso. Definito nei modi più diversi, va riflettuto il significato del termine nel senso più intrinseco; anche se ne abbiamo specificato l’origine della parola, ancora oggi in discussione, non bisogna tralasciarne il senso più stretto della parola.

In epoca moderna il termine comincia a riflettere nuovi processi, grazie alla conoscenza globale dei mondi religiosi e del passato, così che il termine viene a designare il modo in cui la religione influisse sui popoli come un oggetto collettivo.

Un esempio abbastanza rilevante fu la scelta di Costantino e del suo rapporto Stato-Chiesa, a quando fu emanato il famoso Editto di Costantino, il quale concedeva la libertà di culto a tutti, quale che fosse la religione professata. L’importanza di questo Editto sta nel riconoscere la libertà di culto e, soprattutto, nel porre fine per sempre alle persecuzioni dello Stato contro i cristiani. L’ultima e più terribile persecuzione era stata scatenata da Diocleziano, nel 303-304, nei confronti dei cristiani all’interno dell’impero romano, dove gli imperatori Diocleziano, Massimiano, Galerio e Costanzo Cloro emisero una serie di editti volti a revocare i diritti legali dei cristiani, costringendoli ad adeguarsi alle pratiche religiose tradizionali romane; ma editti successivo richiederanno il sacrificio universale, offerto agli stessi dèi pagani.

Non tutte le provincie romane applicarono tale legge, soprattutto in Oriente, e mentre Galerio e Diocleziano furono persecutori accaniti, Costanzo non ne fu molto d’accordo, soprattutto suo figlio, Costantino I che, nel diventare imperatore nel 306, restaurò la piena parità giuridica dei cristiani, dove venne firmato un nuovo editto da Costantino e Licinio, suo collega nella dignità imperiale.  Ai cristiani furono restituite le loro proprietà state confiscate in precedenza, ma le persecuzione non finirono in Egitto, in Palestina e in Asia Minore dal suo successore Massimino. Costantino e Licinio, il successore di Severo, sottoscrissero l’Editto di Milano nel 313 (detto anche Editto di Costantino), dove venne certificata l’accettazione più completa del cristianesimo di quella che l’editto di Galerio aveva fornito.

Si pose fine alle persecuzioni d’Oriente nel 313, la vessazione comunque non riuscì a controllare la crescente diffusione della Chiesa. Nel 324 Costantino rimase l’unico imperatore romano, facendo del cristianesimo la sua religione.

Ritorniamo a Costantino e Licino, nel 313, incontrandosi nei pressi di Milano, i due Augusti presero una decisione storica. Nessuno dei due erano cristiani eppure, Costantino stesso, rimasto unico imperatore, verso la sua morte si battezzò al cristianesimo facendone il proprio credo e, dunque, la sua religione. Questa sua scelta è ancora motivo di discussione tra gli storici, molti sostengono che fosse un uomo con una forza religiosa intrinseca, ma, paradossalmente, rimase scettico verso la fede per quasi tutta la sua vita.

Alcune tesi sostengono la sua scelta come un metodo, una tattica per unificare il popoli e, quindi, l’impero stesso; notando quanto i cristiani fossero uniti tra di loro, quanto questo potesse essere utile. Di certo: dopo l’Editto, Roma e il suo impero vissero una stagione di libertà religiosa, garantendo  una pacifica convivenza tra le due regioni all’interno del suo grande Stato multietnico. Ma sarà nel 380, con l’imperatore Teodosio, quando verrà emanato un nuovo Editto, quello di Tessalonica, nel quale verrà proclamata come religione di Stato proprio il cristianesimo. Era indispensabile che lo Stato mantenesse e garantisse l’unità religiosa – sarà solo in età moderna che si affermerà, in Europa, un’idea diversa di uno Stato e Chiesa e della loro natura distinta, rimanendo separate.

L’Editto di Tessalonica segnò una svolta cruciale, ponendo le basi che verranno protratte nel corso di tutto il Medioevo, dove il Sacro Romano Impero costituirà la sublimazione del modello di Stato

cristiano; in questo modello di Stato-Cristiano ai re spettava fare le leggi, governare, giudicare i crimini (potere temporale), ma non separati dal potere spirituale della chiesa: in poche parole i sovrani devono difendere la cristianità sia dai nemici esterni, che da quelli interni. La morale e le leggi rappresentavano non solo la fede, ma anche le leggi di uno Stato unite a quest’ultime, poiché le leggi di uno Stato cristiano dovevano essere coerenti con la morale cristiana.

Ma le cose cambiarono in età Moderna, dove la nascita di regni e Stati importanti cominciarono a vedere il papa di Roma come uno stato straniero.

Un altro popolo scelse il cristianesimo, i vichinghi Rus, si stima che la data più frequentemente citata per il “Battesimo della Rus” è il 988, sotto Vladimir I. Quando quest’ultimo convertì il paese al cristianesimo per sua decisione – e cioè del Gran Principe Vladimir I, detto il Grande o il Santo –, e anche come questi scelse la fede greco-ortodossa al termine di una analisi di comparazione con l’Islam, il giudaismo e il cattolicesimo romano. Una leggenda narra che i prìncipi di Kiev, da usanza vichinga del bere dopo la vittoria di una battaglia, erano restii alla scelta verso l’Islam per tale proibizione. Tuttavia, non sono state scoperte tracce del cristianesimo nella Rus’ di Kiev prima dell’800. Le prime appaiono nel X secolo, quando fu battezzata la principessa Olga, la vedova del principe Igor. E qui si batte il dipartito tra gli storici, comunque, la maggior parte concorda sul fatto che Olga sia stata battezzata a Costantinopoli nel 957 da Romano II, figlio dell’imperatore Costantino VII nel rito ortodosso.

Il principe Vladimir era il nipote della principessa Olga, il padre non volle mai farsi battezzare, conducendo campagne contro Bisanzio, ma perse la vita e i Rus’ arrivarono a conclusione che un impero potente come quello bizantino era meglio collaborarci che combatterlo, infatti molti russi si battezzarono al cristianesimo ortodosso orientale per lavorare e vivere nelle terre greche.

Noi non possiamo uscire dalla nostra storia e dalla nostra ombra, c’è chi afferma l’esistenza di una radice religiosa profonda, universale che ha fondamento antropologico nella natura umana: identificato nel sacro. C’è chi sostiene il contrario,  dove la religione sia un prodotto antropologico ma limitato, condizionato, non universale e nella sostanza pericoloso e fallace, un fattore illusorio.

Comunque la religione è un fattore che si ritrova nelle popolazioni più diverse, ma come lo si interpreti dipende solo dalle formazioni culturali, ma questa realtà non va ridotta, perché ha influenzato in millenni storia, è cultura come illusione è un’illusione stessa e resta solo il problema di come interpretarla.

Ribadiamo un concetto, ossia l’unità dello Stato, l’identità culturale intesa come spirito di appartenenza di ogni cittadino alla propria patria, si basava sulla religione. Un esempio lo abbiamo verso la religione greca, un politeismo sorto tramite un lungo processo di formazione in cui elementi pre-ellenici, di origine mediterranea e orientale, si fondono con elementi propri delle popolazioni di stirpe indoeuropea, una civiltà percepita come la forma di ordine con l’ausilio dagli dèi agli uomini. Era la sfera del divino a garantire la legislazione e la vita degli uomini, comprese le guerre e altre vicende importanti riguardanti la vita delle poleis.

Per i Romani l’attenzione a questa lealtà, come garanzia di unità e amor patrio, diventa, in periodo imperiale, culto diretto della persona dell’imperatore. Anche nelle loro conquiste era indispensabile il favore degli dèi, tanto da pregarne anche il consenso, e in seguito l’assimilazione, delle divinità pregate dalla tribù che doveva essere conquistata.

Col tempo è avvenuta anche l’evoluzione della trasfigurazione religiosa, o dell’intensificazione che l’uomo ha avuto su di essa; dalla divinità antropomorfa, la quale richiederà una dimora conforme, si avrà il tempio greco, il quale differisce profondamente dalle costruzioni orientali, ospitando una sola divinità. Anche la raffigurazione degli dei richiederà un immagine, ma questa volta in forma umana. Ma col tempo la divinità in grecia assume una divisione politica in gran numero nelle città-Stato, dando l’origine alla molteplicità di forme particolari del culto; i singoli Stati avranno le proprie divinità poliadi dove le forme fondamentali del culto e della mitologia saranno ovunque le stesse ma che differiranno avendo le proprie feste, i propri giochi solenni, il proprio calendario, i propri miti locali.

La religione romana si da la prevalenza al culto più che al mito, questo un politeismo organico con un pantheon articolato, aveva a capo una divinità suprema, Giove. I riti sono tutti amministrati dallo Stato, ma che si distingueva da culti, feste e templi dal privato al pubblico; le feste pubbliche erano celebrate pro populo romano dai sacerdoti che agivano in nome dello Stato.

Quello che a oggi noi chiamiamo culto greco-romano non è altro che un connubio tra queste due culture e le popolazioni limitrofe: oltre alla loro contemporaneità nello sviluppo, non dimentichiamo che queste due grandi civiltà erano sempre in contatto tra di loro, basti pensare alle diverse colonie e alla cosiddetta Magna Grecia; queste ultime interessavano larga parte dei territori del nostro Mezzogiorno: dalla Sicilia, Campania, Calabria, Basilicata e Puglia. A sua volta il mondo romano è sorto dall’incontro di diversi popoli che interessavano il centro della penisola italica con le sue variegate tribù, tra le quali spiccavano i Latini e gli Etruschi.

Una parte delle radici culturali dell’Occidente odierno affondano proprio nella cultura greco-romana, a cui si aggiungono, nel corso della storia, aggiungendosi con la fusione dei popoli germanici, susseguendo i contributi e le basi del cristianesimo e dell’illuminismo. Queste popolazioni e le loro culture sono tutte contemporanee al periodo storico contenuto nelle narrazioni dell’Antico Testamento – quella che è la parte più datata della Bibbia -, conoscerne il contenuto e i suoi elementi ci porta a capire meglio il mondo biblico e la successiva cultura cristiana.

Bisogna tener conto che in passato le mire espansionistiche guidate dalla necessità di controllare uno sbocco sul mare Mediterraneo avevano spinto l’avanzata dei grandi imperi proveniente da oriente, portandoli a occupare territori che andavano dall’Asia fino alle coste che si affacciavano su questo mare; permettendone una mescolanza tra lingua, usi, costumi e tradizioni.

Il tardo Medioevo, la tortura

Nel tardo Medioevo si aprono le porte in quella che sarà una delle inquisizioni – sebbene le più famose fossero l’inquisizione portoghese, spagnola e romana unite nella lotta contro la Riforma, dando l’inizio alla Controriforma – più potenti al mondo. In questi anni abbondavano i trattati sulla tortura per legittimarla e disciplinarla, già nei giuristi medievali si avvertivano delle vivide preoccupazioni per gli abusi e i dubbi sull’efficacia di tale trattamento.

La tortura veniva esercitata in materia civile a fini probatori, ma soprattutto aveva l’obiettivo di rendere più certe le sentenze nei processi criminali ai testimoni poco attendibili o reticenti. Tanto nei processi civili e quanto in quelli inquisitoriali, la tortura era raccomandata in casi specifici: quando l’imputato si ostinava a negare la sua colpa ma che, a suo tempo, non fosse neanche in grado di provare la propria innocenza. Veniva attuata anche nel caso il colpevole aveva confessato la sua colpa ma che, allo stesso tempo, non era del tutto credibile.

Vi erano previste delle categorie dove la tortura non era applicabile, come ai cavalieri, ai nobili, ai chierici e ai bambini; gli anziani, alle donne gravide e le puerpere, per chi dichiarasse di avere una qualche malattia e quindi non in grado di resistere a tale prova, avendo anche il diritto di essere visitato da un medico.

La tortura poteva essere solamente applicata su una solida base di una preliminare sentenza, rispetto alla quale l’imputato poteva appellarsi. Spesso era anche la paura della sofferenza a portare l’imputate a confessare la verità; poi – sempre riguardante la tortura –, essa doveva essere posta sotto i limiti e i tempi sanciti nella sentenza. La tortura si poteva iterare in singoli e specifici casi e dopo una maturata riflessione.

I sistemi e i mezzi di tortura cambiavano a seconda degli usi e costumi e, soprattutto, le consuetudini locali; ma nel corso del XVII-XVIII secoli si disciplinò secondo le varie normative statali. Una delle torture più comuni erano i tratti di corda, il cavalletto, il fuoco, la stanghetta, le cannette, la veglia e la bacchetta. Il testimone o il colpevole che avesse resistito al dolore senza ritrattare la propria confessione, era considerato veridico, ma se avesse resistito senza fare alcuna confessione, era dichiarato innocente.

La tortura era seguita minuziosamente dai notai, i quali annotavano nello specifico ogni singolo movimento e parola detta.

Molti inquisitori erano reticenti nell’uso dell’extrema ratio, la tortura, contrariamente a quanto si pensi, spesso era richiesta dai tribunali laici che da quelli inquisitoriali; anzi, frequentemente molti inquisitori citavano il duro giudizio sui limiti della tortura.

Il pensiero ecclesiastico che portò ad avversare tale vessazione comincia da Tertulliano e da Agostino; ma non dimentichiamo che dietro al loro sorvegliato lignaggio vi erano carnefici e strumenti che somministravano dolore, e la considerazione che gli inquisitori erano onesti e in buona fede non deve fare dimenticare la sostanza brutale di coloro che, invece, se ne servivano.

Nel diritto romano la tortura era una pratica usata nell’interesse stesso dell’imputato, dove in mancanza di chiare prove vi era la forza d’animo che dimostrava la sua innocenza, in caso contrario, la stessa colpevolezza. Dato il carattere doloroso e umiliante, questo metodo vessatorio veniva unicamente, in certi determinati casi, utilizzato per soggetti non liberi. Ma per molti la tortura stessa era uno strumento fragile e rischioso, fu per questo che durante l’Alto Medioevo quest’ultima veniva sostituita con l’ordalia.

Nel periodo della regolarizzazione della pratica della tortura furono fissati alcuni punti: si dovevano evitare le mutilazioni permanenti e la morte.

L’epoca peggiore riguardante la tortura fu il Rinascimento, dove bastava solo un sospetto di stregoneria, una scappatella extraconiugale o un debito non pagato per finire legati e messi sotto tortura.

Sempre quest’ultima non era una punizione, questo sia chiaro, ma un metodo giudiziario per provare una colpevolezza o una prova di innocenza. La stessa usanza antica traeva origini dal mondo greco-roano e, ancora prima, dagli antichi egizi. Con la fine dell’Impero romano questa pratica venne dimenticata per poi essere reintrodotta nel tardo-medioevo. Un primo caso di tortura lo si ha testimoniato e documentato nel 1228; ma i giudici e gli inquisitori del tardo Medioevo non erano poi così sprovveduti. Come citato poche righe prima, essi sapevano bene che la tortura era un meccanismo inaffidabile e che se ci si spingeva oltre un certo limite non aveva più alcun valore. Fu per questo motivo che vennero enunciati una serie di regolamenti e norme per disciplinarne l’utilizzo, al fine di renderlo il più obiettivo ed efficiente possibile.

L’accusato che doveva essere sottoposto alla tortura veniva avvertito in anticipo, una delle tattiche che potevano indurlo a confessare per il timore di provare dolore. Ma se l’accusato si dichiarava ancora innocente senza prove schiaccianti ed era pronto a essere sottoposto a tali metodi, allora si procedeva.

La tortura fu un metodo utilizzato dal Basso Medioevo fino all’età Moderna per indurre a confessare, il sistema più comune fu quello della corda strappata.

Nel Seicento dell’anno mille, la caccia alle streghe rese la tortura più violenta e sottoposta a categorie dove era proibito durante gli anni della fine del Medioevo, soprattutto nelle terre germaniche. Succedeva anche l’amputazione degli arti, pratica proibitiva prima dell’avvento del Rinascimento. Resta di fatto che erano comunque metodi proibiti dalla Chiesa, ma applicati dalla legge laica.

Anche se si pensa che il Rinascimento fu un’epoca di sole mentre il Medioevo viene tutt’oggi considerata un secolo, erroneamente, oscuro, fu dal XVI secolo in poi che peggiorò il metodo di tortura e si diffuse in tutta Europa la paura della stregoneria. Mentre si innalza la storia di Michelangelo, la scoperta di Galileo, il quale aveva fondato le basi del metodo scientifico, per non parlare di Copernico, Keplero, Cartesio, etc… le forme più orribili di tortura, la caccia alle streghe fu una piaga che imprigionò tutto il continente europeo.

La Pulzella, ottava e ultima parte

Rouen fu il luogo stabilito per il processo inquisitoriale che avrebbe dovuto sostenere, il 3 gennaio del 1431 il re di Francia e d’Inghilterra, Enrico VI, emanava una lettera patente nella quale informava la cristianità di aver fatto arrestare la donna dal nome Pulzella detta Giovanna. Sei giorni dopo venne aperto il processo, il vescovo presidente del tribunale la procura inquisitoriale prevedeva l’inquisitore generale di Francia; quest’ultimo si defilò, era evidente che che non sosteneva il carattere politico di quella faccenda, anche il suo sostituto fece in modo di essere latitante durante tutto il processo.

Fino all’apertura del processo fu nominato un pubblico ministero, il promotore della causa, nella persona di Jean d’Estive, canonico di Bayeux e di Beauvais; un consigliere esaminatore, Jean de la Fountaine, e due notai cancellieri, Guillaume Colles e Guillaume Manchon.

Furono convocati sei universitari parigini e una sessantina fra prelati e avvocati di tribunali ecclesiastici. Questo collegio giudicante non fu affatto unitario, senza dubbio vi era chi la voleva condannare, ma anche chi era favorevole a un processo corretto; va specificato che non tutta la chiesa di Francia era a favore di una sua condanna.

Ma gli inglesi non avevano alcuna intenzione di correre il rischio nel lasciarsi scappare di mano la Pulzella e rivedersela, un giorno, davanti a rovinargli i piani.

Il processo inquisitoriale prevedeva due fasi: l’istruttoria con inchieste e interrogatori, aperta da un diffamatio, un’accusa fondata sulle testimonianze raccolte e sull’esito che permetteva di affermare che l’imputato notoriamente godeva di cattiva fama; e una ordinaria, durante la quale prima si ammoniva l’imputato a pentirsi e a confessare nel caso fossero emersi nei suoi confronti sospetti o addebiti. Nel caso l’imputato si fosse rifiutato di ammettere la colpevolezza, si poteva applicare la tortura e, infine, si sarebbe formulata la sentenza.

Il processo d’ufficio cominciò il 9 gennaio del 1431, durato fino al 26 marzo. Giovanna fu interrogata sei volte in pubblico, dinnanzi a una sessantina di persone, e una decina di volte in prigione, talvolta a due riprese nella stessa giornata. Nel mentre si conduceva un’accurata inchiesta nel suo paese natale, a proposito della sua persona e dei suoi costumi. Alla fine del mese di marzo fu presentato al collegio e all’accusata un libellus riassuntivo di tutti i punti che le venivano mossi; quest’ultimo constatava settantadue punti che, puntualmente, Giovanna respinse.

Le sedute erano state lunghe e sfibranti per la ragazza, gli accusatori interrogavano l’imputata alla cieca, senza seguire uno schema specifico. Ciclicamente le domande riguardavano i soliti argomenti, che puntualmente venivano affrontati alla rinfusa. Il punto in questione erano le voci, secondariamente, e non meno importate, le vesti maschili indossate durante le sue battaglie. Non mancò la questione sui riti che la ragazza effettuava in età fanciullesca sotto l’albero delle fate sulla fortuna. Talvolta le domande venivano ripetute più e più volte ma in forme differenti.

Anche se gli argomenti erano casuali, senza nessuno schema specifico, differentemente gli accusatori seguivano una loro tattica per portare l’accusata alla confusione, per stancarla, per farla cadere in contraddizioni. Ma non fu facile per loro, Giovanna rispondeva immediatamente e senza batter ciglio, non prive di un tagliente umorismo; anche se a volte sembrava vacillare, come se si perdesse di coraggio e di animo, non fu facile piegarla. Su due punti Giovanna non mostrò di deflettere mai in alcun modo: sulla sua sicurezza rivolta verso le voci, e il rifiuto delle vesti maschili.

Furono settantadue i capi d’accusa, venne additata come: falsa, maga, bestemmiatrice, impudica a tal punto da vestirsi da uomo, ma l’errore più grande che Jeannette commise fu quello di non considerare, di non credere che tra uomo e Dio servisse la mediazione della Chiesa.

Il 27 marzo diede le porte alla seconda fase del processo, alla Pulzella vennero letti i settantadue capi d’accusa, giudicata incantatrice e indovina, falsa profetessa, invocatrice e scongiuratrice di malvagi spiriti, superstiziosa, dedita alle arti magiche, malpensante e scismatica (riguardante all’articolo Uman Sanctum). Sacrilega, idolatra, apostata, maldicente e malamente, bestemmiatrice nei confronti di Dio e dei santi, scandalosa, sediziosa, turbatrice e osteggiatrice della pace, incitante alla guerra, crudele e assetata di sangue, svergognata, eretica e quindi sospetta di eresia.

L’ostinazione con la quale ella si diceva certa dell’origine divina delle sue voci, la convinzione che prima dell’autorità della Chiesa venisse quella di Dio, l’utilizzo degli abiti maschili. Questi tre punti importanti riassunsero tutti i capi d’accusa, insieme racchiudevano un’unica condanna: quella di eresia.

Era evidente che i giudici erano discordi e disorientati sul da farsi, nessuna prova di una vera e propria colpevolezza era affiorata, fu evitata alla ragazza la vera e propria tortura adattata in quegli anni di tardo Medioevo, molto probabilmente non l’avrebbe sopportata, e molti sostenevano che accusarla ne avrebbe fatto del suo nome quello di una martire; ma assolverla era impensabile, sarebbe stato peggio che renderla martire.

Tra il Trecento e i Quattrocento le istituzioni inquisitorie erano cadute nelle mani del nascente Stato assoluto, e che i processi di eresia potessero essere trasformati facilmente in processi politici.

Alla fine fu espressamente reso pubblico che le corone di Francia e di Inghilterra pretendevano una condanna, quindi il verdetto fu deliberato e Giovanna fu dichiarata colpevole. Ma c’era ancora chi voleva risparmiarle il rogo, mettendola a dura prova per farla confessare. Finalmente ella parve cedere.

Le furono elencati i capi d’accusa pubblicamente, il giorno seguente fu costretta ad ascoltare una predica-requisitoria dove, in lontananza, si ergeva il palo per il rogo che le avrebbero fatto evitare.

Giovanna cominciò a fare richiesta di appellarvi al papa, ma la corte finse di non aver udito. Le misero precipitosamente tra le mani un documento da firmare, un abiura di poche righe, forzandole la mano per farla firmare (dichiarato da loro: “guidandole la mano”). Fu ancora minacciata, ma i testimoni confermarono che la ragazza era abulica, frastornata e non comprendeva molto di ciò che le stava accadendo; altri sostenevano che rideva, prendendosi gioco di tutti.

Si impegnò a non tagliarsi più i capelli e a non portare alcun abito maschile. Il breve documento firmato da lei fu sostituito da un documento lungo almeno una cinquantina di righe, indossò abiti femminili e fu riportata in prigione.

Ma gli inglesi non furono d’accordo per come stavano andando le cose.

Passarono tre giorni, la domenica del 27 maggio, festa della Trinità, vennero avvertiti i maggiori esponenti della corte che la ragazza aveva indossato gli abiti maschili, ma nessuno sa cosa fosse successo: se di sua spontanea volontà o che vi fosse stata indotta da esterni.

Quei tre giorni rimasero sconosciuti, ma sappiamo per certo che Giovanna aveva chiesto invano di essere custodita in una sede religiosa.

Un testimone afferma che il giovedì Jeannette aveva accettato gli abiti femminili, ma che la domenica un guardiano glieli aveva strappati di dosso per farle indossare quelli maschili.

Fu interrogata nuovamente, Jeannette ammise la sua colpevolezza: aveva indossato gli abiti maschili di sua spontanea volontà.

L’ultimo e concitato interrogatorio non avvenne in presenza di testimoni, quivi nasce il sospetto che la ragazza fosse stata costretta a riprendere gli abiti maschili e a dichiarare il falso.

Ora la Chiesa poteva solo abbandonarla al braccio secolare per essere bruciata al rogo.

Giunse il momento, Giovanna desiderava il conforto di un crocifisso. Fu un soldato inglese, pietosamente, le confezionò un crocifisso fatto con due pezzi di legno. Anche un frate corse alla vicina chiesa per prendere una croce astile e avvicinarla, per poterle fare avere il conforto di Cristo dall’alto del suo rogo.

Intorno a lei si avvolsero ghirlande umane in preda al pianto, circondata dalle fiamme, gridò più volte ad altissima voce il nome di Gesù.

La Pulzella, settima parte

Nel medioevo non si può parlare di un sentimento nazionale, questo termine, strettamente moderno se non addirittura contemporaneo, ha comunque radici in questa epoca. Fatta questa premessa, bisogna sottolineare come il sentimento fortemente mistico e regale era intrinseco non solo in Giovanna ma anche per l’epoca. Nel pieno del XII secolo cominciano a delinearsi, in dell’Europa come luogo delle diversità e delle identità, all’interno del complesso unitario del corpus christianorum, della sancta Romana res public e della cristianità latina. Nel periodo delle crociate i francesi e quelli che appartenevano a quello che sarebbe stato il futuro stato della Germania, quindi le schiere tedesche, si fronteggiavano lanciandosi feroci epiteti; e non dimentichiamoci che c’era anche l’araldica a dividerne le fazioni: è già nelle prime crociate che c’era l’usanza di distinguere le diverse nazioni mediante l’uso di differenti croci, diversi colori cuciti sulle vesti, gli stendardi, etc…

Fra tutte le nazioni medievali in Europa, la Francia sarebbe stata la prima a raggiungere coscienza della sua identità. Questo lo possiamo trovare anche nella chansons de gest, tra il XI e il XII secolo, la vittoria della cristianità e l’amore per la douce France convergono in un sentimento comune.

Nella guerra dei Cento Anni, il territorio era abitato da chierici e universitari molto fedeli, ma nelle campagne, sebbene quest’ultima fosse ben sentita ed evidente, cominciarono a crescere quei sentimenti che nell’epoca moderna avrebbero dato inizio al nazionalismo; mentre i sentimenti patriottici erano già vivi nei cuori di coloro che vi abitavano da tempo.

Sovente nei poemi omerici, quantunque nel medioevo, le battaglie si combattevano in cielo così come in terra, nella Francia del Trecento e del Quattrocento si scontrarono la croce bianca francese contro quella vermiglia inglese. L’esercito del delfino, affascinato e animato dalla Pulzella, si sentiva come una truppa crociata che seguiva un vessillo sul quale era ricamato il nome del Signore. Il fatto che sul campo ci fosse un esercito guidato da una profetessa che innalzava uno stendardo su cui era riportato il nome di Gesù, era da solo un chiaro elemento da poter essere sfruttato dagli inglesi: un’opportunità da non farsi scappare contro l’eroina stessa, come la perplessità di una fanciulla che fatalmente andava suscitando il mondo cristiano.

Nel medioevo non era lecito che due armate cristiane si combattessero tra di loro in una crociata, almeno che una delle due non fosse composta da eretici come lo erano stati per loro i Saraceni. Come successe in Italia meridionale tra il 1229 e il 1230, quando papa Gregorio IX occupò con il suo esercito il regno di un sovrano crociato perché scomunicato; o in terra di Spagna tra 1939 e il 1939 quando i franchisti si scontrarono in una cruzada contro l’ateismo materialista e i soldati e i miliziani repubblicani che lottavano come i loro antenati medievali: contro un’invasione dei mori. Sempre nel secondo conflitto l’Asse pretese di brandire una crociata contro la Russia bolscevica, mentre gli angloamericani propagandavano la loro crociata per liberare l’Europa dal fascismo.

«A ciascuno la sua crociata!»

Dopo la salita ecco la discesa e, come in questo caso, fu molto ripida. Nell’autunno tra il 1429 e il 1430 le truppe della pulzella condussero delle azioni maldestre contro la piazzaforte di Gressart. In questo periodo successero delle cose che avrebbero segnato il processo di Giovanna, la ragazza aveva solo imparato a firmare con il suo nome, e fu l’unico passo avanti che fece nella sua lotta. Poi venne coinvolta in una faccenda poco chiara da Catherine de la Rochelle in una faccenda poco chiara di arcane signore vestite d’oro; non meno infelice fu la scelta di non riuscire a impedire che il re facesse dei doni alla sua famiglia, anche se la Pulzella non ne fu messa completamente al corrente, questo modo di agire non fece altro che aumentare le chiacchiere su di lei.

Nel 1430 Jeanette accettò di lasciarsi festeggiare sontuosamente da Orléans, la quale le era riconoscente.

Vi fu una lunga tregua tra il duca di Borgogna e Carlo VII, questa gettò le basi per una riunione di pace. Giovanna credette che si dovesse mettere tutti di fronte al fatto compiuto, soprattutto il duca di Borgogna, il re e Bedford. Ma lei aveva avuto una profezia, sapeva che sarebbe durata un anno e non di più, anche se l’accompagnarono altri prodigi e altre visioni, non era più chiaro al servizio di chi fosse: forse solo delle sue voci.

La pulzella si mosse verso Compiégne, che si preparava a sostenere un nuovo assalto da parte del duca di Borgogna; ma fu bloccata alle soglie dalla controffensiva armata, le furono chiuse in faccia le porte di Compiégne. Non si sapeva più se tale atto fosse dettato da un errore, dal panico o dal tradimento. Giovanna cercò di rientrare dentro la cinta muraria, ma fu catturata da Lionel del Wamdonne, luogotenente di Jean de Luxemburg conte di Ligny che era vassallo fedele del duca di Borgogna.

Catturata dai Borgogna il 23 maggio del 1430, Giovanna fu immediatamente considerata una preda scomoda. Reclamata dagli inglesi e dall’inquisizione, trascinata da una regione all’altra in attesa di giudizio.

Il re di Francia non fece nessun tentativo per liberare la ragazza. Il duca non avrebbe opposto resistenza a una finta evasione, nel fare fuggire colei che aveva messo Carlo VII sul trono, ma Giovanna interessava agli inglesi. Questi ultimi non avrebbero mai lasciato la responsabile delle loro sconfitte, in più erano fermamente convinti delle sue azioni ereticali, screditando l’unzione sacrale verso il delfino. La Francia, per ovviare a tale disonore, la diffamò tramite delle lettere, affermando che nel corso degli event ella fu preda della superbia, della sua vanità del suo amore per i  begli abiti e per le belle armi e che c’era già pronto chi l’avrebbe sostituita.

Per circa sei mesi Giovanna fu spostata da un luogo di prigionia a un altro.

Da qui ebbe inizio il suo calvario, e fu sola la contro tutti.

La lunga prigionia ne aveva fiaccato il corpo e lo spirito, iniziarono per Giovanna le sfibranti sedute dell’istruttoria: l’accusa era di eresia e l’Inquisizione intendeva provarla con ogni mezzo. Fu affidata a un corpo di guardia inglese non composto da gentiluomini, avevano ricevuto il preciso ordine di sfiancarla moralmente, soprattutto perché facili e famosi per le loro intemperanze verbali. Fu rivestita di insulti, fu sottoposta a ripetuti e continui tentativi di stupro, ma non andati a “buon fine” – il loro compito era buttarla giù di morale, mortificandola per indebolirne l’animo.

Il processo non fu regolare, gli arbitri, gli abusi e le omissioni di certo non mancarono. Tuttavia il processo non era stato corrotto dagli inglesi e questi ultimi non avevano intimidito nessuno per portarlo all’esito che più preferivano. Nella prima parte del processo non vi fu nessun caso di corruzione, nulla toglie, però, che vi fossero delle irregolarità: una donna processata senza patrocinatori non era nella legalità di quei tempi. Di sicuro la pratica della concessione di un curator alle minori di venticinque anni era frequente.

Nella prima parte del processo Giovanna non correva alcun rischio di vita, sarebbe bastato convincerla di eresia, dimostrare che le sue opinioni di fede o quantomeno le sue voci erano cose in qualche modo eterodosse e il gioco sarebbe stato fatto. Si voleva provare che in lei non vi era nulla di santo e di connesso con la volontà di Dio, ma che semplicemente si fosse inventata tutto.

Ma Giovanna non aveva alcuna intenzione di rinnegare le sue voci e le azioni che queste le aveva ispirato, questa sua convinzione, purtroppo, li portò a pensare che, allora, le sue voci fossero state mandate dal demonio.

La Pulzella, sesta parte

Sotto il profilo sacrale e spirituale il trono di Francia era ancora vuoto, la consacrazione mediante unzione con il crisma contenuto nella Sacra Ampolla aveva importanza sul piano spirituale ma non sul piano giuridico. Un re taumaturgo era un conto, ma erano i diritti dinastici e le definizioni giuridiche a definire il diritto di cinger la corona.

Il giovane Enrico VI non era mai stato coronato, nipote, da parte di madre, di Carlo di Valois (quest’ultimo fu diseredato, desiderato dal padre a vantaggio della sorella).

Nel mondo a cui apparteneva Giovanna il re era prima di tutto una figura benedetta: un taumaturgo il cui tocco, dopo la consacrazione, poteva guarire le malattie; era il successore di San Carlomagno – l’imperatore franco canonizzato nel XII secolo, per volontà di Barbarossa – e di San Luigi.

Altri personaggi che ebbero a che fare con la nostra Jeannette furono Giovanni II d’Alençon, secondogenito del duca Giovanni I, il titolo di duca gli era giunto in quanto suo fratello maggiore era morto nel 1415. Si era visto togliere il ducato dagli inglesi, e costretto a rifugiarsi dal delfino, stimato da quest’ultimo, con l’onore di essere il padrino del figlio, il futuro Luigi XI.

Nel 1424 fu preso prigioniero dal duca di Clarence, pagò una grossa somma per il riscatto, ritornato al fianco di Carlo di Valois, il 6 marzo incontrò Giovanna. Per entrambi scattò un colpo di fulmine, tanto che Giovanna lo nominò “il bel duca”.

Nel 1429 durante l’assedio alla piazzaforte di Jargeau, la fanciulla salvò la vita al suo duca ordinandogli di ritirarsi; un atto del tutto insolito visto che la Pulzella, generalmente, incitava all’assalto, infatti in quell’occasione il duca ebbe salva la vita e al suo posto morì un altro combattente.

Per quanto riguarda il Bastardo e la Pulzella, Giovanni d’Orléans, difensore della piazzaforte di cui portava il titolo feudale, quando nel 1429 giunse Giovanna, era coetaneo del delfino. Il rude inizio tra i due, i rimproveri continui che Giovanna gli recava senza indugio, condussero il loro rapporto a una duratura amicizia, dando inizio a ulteriori fantasticherie nella bocca della gente.

Gilles de Rais (Barbablù) era un uomo inquieto e sensibile, l’incontro con la Pulzella lo cambiò, mutandolo profondamente: infatti la sua morte lo segnò, scuotendolo a tal punto da lasciarlo nella disperazione. Qui ebbero inizio i suoi infanticidi, l’alchimia e le spese folli, dando origine a una delle fiabe più celebri.

Fu condannato nel 1440 e giustiziato dopo un processo che aveva messo a nudo i suoi terribili delitti.

Finalmente il delfino e il suo seguito giunsero d’innanzi alla cattedrale di Reims, era la sera di sabato 16 luglio 1429. La mattina seguente i quattro cavalieri detti “gli ostaggi della Santa Ampolla”, si incamminarono verso l’abbazia di Saint-Reims, dove era conservata la preziosa reliquia che gli angeli avevano recato dal Cielo per il battesimo di Clodoveo.

Tutto si svolse secondo il rito tradizionale, il re prestò i giuramenti prescritti, furono benedette le insegne del potere regio: la corona, gli sproni, lo scettro e la “mano di giustizia”. Il sovrano, ancora prosternato sui gradini dell’altare mentre si cantavano le litanie, venne unto dall’arcivescovo con il sacro crisma sulla testa, sul petto, sulle spalle, sulle gambe e sulle braccia. A questo punto il re vestito solo di una lunga camicia e calzature, ricevette la tunica e una cappa serica, gli si unsero le mani per poi calzare un paio di guanti e un anello, simbolo dell’unione tra il sovrano e il popolo. I pari del regno (sei laici e sei ecclesiastici) tennero sospesa sulla sua testa la corona, mentre egli si avviava verso la pedana dove stava collocato il trono; quivi, con la corona sulla fronte, il re si sedette finalmente in maestà mentre suonavano le trombe alle grida del popolo.

«Noël!» in ricordo del fatidico Natale del 496, quando Clodoveo venne consacrato e battezzato re.

Durante tutta la cerimonia la Pulzella era rimasta accanto al sovrano, tenendo alto il suo bianco stendardo.

Giovanna aveva succhiato il latte materno a Domrémy, villaggio appartenente al patrimonio della chiesa di Saint-Reims, che aveva in San Remigio il patrono della chiesa parrocchiale –, il culto della sacralità regia della Francia. Ogni anno, il 6 ottobre in occasione della festa del santo, si narrava il leggendario racconto del battesimo di Clodoveo, soprattutto della Santa Ampolla contenente il crisma della consacrazione che la colomba dello Spirito Santo (secondo la tradizione) aveva recato dal Cielo affinché i re di Francia fossero unti come lo era stato Davide dal profeta Samuele nel racconto Biblico.

La regione al confine con la Germana in cui Giovanna era nata – tra Francia e la futura Germania – era piena di questi riferimenti sulla sacralità religiosa. In queste terre erano diffusi i culti regali di “San” Carlomagno e dei Re Magi.

La liturgia convergeva con il sentimento popolare verso una devozione del Cristo Re, dove i sovrani terreni erano sentiti come vicari e figure del Sovrano Celeste, che ne era il modello. Per il popolo era re chi era unto col sacro crisma dell’ampolla di Reims secondo il rito avviato dal sacro vescovo Remigio, davano più importanza al carisma che ai diritti dinastici, giuridici, ai trattati e alle leggi: era re chi cingeva la corona benedetta all’altare. Il re unto acquistava anche il potere arcano di guarire le scrofole, un’affezione ghiandolare allora diffusa.

Il battesimo di Clodoveo fu il primo di una lunga serie di riti di consacrazione regia di cui la cattedrale di Reims fu testimone.

La Pulzella, quinta parte

L’obiettivo era la pacificazione della Chiesa e la riunificazione della Francia, bisognava, dunque, giocarsela e la via era piena di profeti e profetesse che sentivano le voci; ma Giovanna era diversa, ella era portatrice di un messaggio nuovo: non sentiva solo le voci, la fanciulla voleva agire, combattere. Vi fu un’altra donna con la volontà di combattere e che non solo sentiva le voci, ma affermava di parlare con Cristo in carne e ossa, suo discapito Giovanna era più preparata nella teologia e aveva scelto per la sua causa la persona giusta, Poitiers.

La Pulzella aveva dato anche le risposte giuste, le venne chiesto quale bisogno la spingeva ad armarsi, che l’essere umano niente poteva alla volontà del Signore, la volontà Divina non aveva bisogno dell’aiuto umano per realizzarsi. Ma Giovanna rispose: «Gli uomini combatteranno e Dio donerà la vittoria.»

Aveva risposto egregiamente, un modo prefetto per definire il rapporto fra la Fede e le Opere, tra la Grazia e il Libero Arbitrio.

Vennero immediatamente divulgate delle dicerie sul fatto che Giovanna fosse la figlia illegittima dei Valois o d’Orléans, si sospetta che tali pettegolezzi fossero stati diffusi dallo stesso Carlo nell’intendo di una “guerra psicologica”, o dai suoi avversari decisi a denigrarlo; comunque siano andate le cose, si decise sin da subito di giocare la carta carismatica da una parte, mentre dall’altra la lotta contro l’eresia.

Per gli uni Giovanna era l’inviata dal Cielo, per gli altri un’eretica impura, una strega.

La strategia di Carlo era verso la sublimazione della fanciulla, tentando un entusiasmo religioso. Radunò le truppe a Blois. La Pulzella vi giunse il 21 aprile, ma gli indugi, i dubbi e le cautele la irritavano rendendola disturbata; infatti a ogni ragione di tattica, di logistica e di diplomazia ella reagiva bruscamente, ripetendo assiduamente dell’ordine ricevuto dalle “voci”.

Il dito andava puntato su Orléans, paragonando l’assedio come la caduta delle mura di Gerico al suono delle trombe degli ebrei, ecco come sarebbe andata a finire.

Orléans sopportava un assedio che oramai si protraeva da almeno sei mesi, delle cinque mura che interrompevano la cinta muraria solo la Porta di Borgogna, che dava sulla strada diretta a Gien, era praticabile nonostante l’assedio. Ciascuna delle cinque porte era guarnita di due torri e comunicante tramite il ponte levatoio con un bastione che serviva da difesa avanzata, fu dalla strada diretta a Gien che giunse Giovanna e che entrò in città.

Il ponte sulla Loira era difeso da nord, dalla parte dell’abitato, dalla porta fortificata chiamata “dello Châtelet”, e a sud, sulla riva sinistra del fiume, da una bastia detta “Les Tourelles”. Un ponte che era un manufatto per l’epoca imponente, costituito da diciannove arcate irregolari.

La pulzella giunse in aprile, ne conseguì una lite con il capo della difesa, il figlio illegittimo del duca Luigi e nominato – non in senso dispregiativo – ‘il Bastardo d’Orléans’.

Finalmente dentro le mura, la Pulzella fu accolta come una liberatrice – la notizia dell’arrivo di Giovanna e delle sue profezie si era sparsa rapidamente –, il suo ingresso fu trionfale: la sua armatura risplendeva, ella impugnava il candido stendardo ed era seguita dal Bastardo d’Orléans, da un leggendario capo militare il cui nome era Etienne de Vignolles, soprannominato ‘La Hire’ per il suo carattere impulsivo e irruento.

Gli usi militari di quell’epoca prevedevano tre lettere di sfida spedite all’avversario, e Giovanna le spedì direttamente agli inglesi, questi ultimi risposero immediatamente e con insolenza apostrofandola come “strega” e “puttana”. Dal ponte ella ebbe uno scambio piuttosto brutale di invettive col capitano inglese Glasdale, da lei chiamato per dileggio Glacidas (gracidar delle rane). Il paradosso volle che da lì a poco Glasdale morì annegato nel fiume, finito in acqua dal peso delle sue armi.

Giovanna, grazie a questo avvenimento, diventò la profetessa per il suo popolo, strega per il campo avverso.

Gli attacchi e le conquiste da parte dei francesi non cessarono, la Pulzella venne ferita prima a un piede con una chausse-trape (una specie di chiodo a molte punte con cui si seminava il terreno), poi fu ferita nuovamente con un colpo di balestra tra il collo e la spalla, pianse, gridò dal dolore, rifiutò amuleti o altra paccottiglia, si fece medicare alla bene e meglio e riprese la sua postazione.

Finalmente Orléans fu liberata l’8 maggio, i fortilizi nemici smantellati e gli inglesi costretti a ripiegare.

Liberata Orléans e ottenuta dal Delfino un’armata, l’avanzata di Giovanna si fece sempre più inarrestabile, fino alla vittoria di Patay e alla cavalcata verso Reims, dove verrà consegnato un re alla Francia e la Pulzella alla storia.

La Francia aveva bisogno di un re legittimo, consacrato con l’unzione che si riceveva, dal tempo dei franchi, a Reims. Poi si doveva partire alla conquista di Parigi, cacciare gli inglesi dalla Francia e liberare il duca Carlo d’Orléans che era tenuto prigioniero dagli stessi inglesi.

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