Rouen fu il luogo stabilito per il processo inquisitoriale che avrebbe dovuto sostenere, il 3 gennaio del 1431 il re di Francia e d’Inghilterra, Enrico VI, emanava una lettera patente nella quale informava la cristianità di aver fatto arrestare la donna dal nome Pulzella detta Giovanna. Sei giorni dopo venne aperto il processo, il vescovo presidente del tribunale la procura inquisitoriale prevedeva l’inquisitore generale di Francia; quest’ultimo si defilò, era evidente che che non sosteneva il carattere politico di quella faccenda, anche il suo sostituto fece in modo di essere latitante durante tutto il processo.
Fino all’apertura del processo fu nominato un pubblico ministero, il promotore della causa, nella persona di Jean d’Estive, canonico di Bayeux e di Beauvais; un consigliere esaminatore, Jean de la Fountaine, e due notai cancellieri, Guillaume Colles e Guillaume Manchon.
Furono convocati sei universitari parigini e una sessantina fra prelati e avvocati di tribunali ecclesiastici. Questo collegio giudicante non fu affatto unitario, senza dubbio vi era chi la voleva condannare, ma anche chi era favorevole a un processo corretto; va specificato che non tutta la chiesa di Francia era a favore di una sua condanna.
Ma gli inglesi non avevano alcuna intenzione di correre il rischio nel lasciarsi scappare di mano la Pulzella e rivedersela, un giorno, davanti a rovinargli i piani.
Il processo inquisitoriale prevedeva due fasi: l’istruttoria con inchieste e interrogatori, aperta da un diffamatio, un’accusa fondata sulle testimonianze raccolte e sull’esito che permetteva di affermare che l’imputato notoriamente godeva di cattiva fama; e una ordinaria, durante la quale prima si ammoniva l’imputato a pentirsi e a confessare nel caso fossero emersi nei suoi confronti sospetti o addebiti. Nel caso l’imputato si fosse rifiutato di ammettere la colpevolezza, si poteva applicare la tortura e, infine, si sarebbe formulata la sentenza.
Il processo d’ufficio cominciò il 9 gennaio del 1431, durato fino al 26 marzo. Giovanna fu interrogata sei volte in pubblico, dinnanzi a una sessantina di persone, e una decina di volte in prigione, talvolta a due riprese nella stessa giornata. Nel mentre si conduceva un’accurata inchiesta nel suo paese natale, a proposito della sua persona e dei suoi costumi. Alla fine del mese di marzo fu presentato al collegio e all’accusata un libellus riassuntivo di tutti i punti che le venivano mossi; quest’ultimo constatava settantadue punti che, puntualmente, Giovanna respinse.
Le sedute erano state lunghe e sfibranti per la ragazza, gli accusatori interrogavano l’imputata alla cieca, senza seguire uno schema specifico. Ciclicamente le domande riguardavano i soliti argomenti, che puntualmente venivano affrontati alla rinfusa. Il punto in questione erano le voci, secondariamente, e non meno importate, le vesti maschili indossate durante le sue battaglie. Non mancò la questione sui riti che la ragazza effettuava in età fanciullesca sotto l’albero delle fate sulla fortuna. Talvolta le domande venivano ripetute più e più volte ma in forme differenti.
Anche se gli argomenti erano casuali, senza nessuno schema specifico, differentemente gli accusatori seguivano una loro tattica per portare l’accusata alla confusione, per stancarla, per farla cadere in contraddizioni. Ma non fu facile per loro, Giovanna rispondeva immediatamente e senza batter ciglio, non prive di un tagliente umorismo; anche se a volte sembrava vacillare, come se si perdesse di coraggio e di animo, non fu facile piegarla. Su due punti Giovanna non mostrò di deflettere mai in alcun modo: sulla sua sicurezza rivolta verso le voci, e il rifiuto delle vesti maschili.
Furono settantadue i capi d’accusa, venne additata come: falsa, maga, bestemmiatrice, impudica a tal punto da vestirsi da uomo, ma l’errore più grande che Jeannette commise fu quello di non considerare, di non credere che tra uomo e Dio servisse la mediazione della Chiesa.
Il 27 marzo diede le porte alla seconda fase del processo, alla Pulzella vennero letti i settantadue capi d’accusa, giudicata incantatrice e indovina, falsa profetessa, invocatrice e scongiuratrice di malvagi spiriti, superstiziosa, dedita alle arti magiche, malpensante e scismatica (riguardante all’articolo Uman Sanctum). Sacrilega, idolatra, apostata, maldicente e malamente, bestemmiatrice nei confronti di Dio e dei santi, scandalosa, sediziosa, turbatrice e osteggiatrice della pace, incitante alla guerra, crudele e assetata di sangue, svergognata, eretica e quindi sospetta di eresia.
L’ostinazione con la quale ella si diceva certa dell’origine divina delle sue voci, la convinzione che prima dell’autorità della Chiesa venisse quella di Dio, l’utilizzo degli abiti maschili. Questi tre punti importanti riassunsero tutti i capi d’accusa, insieme racchiudevano un’unica condanna: quella di eresia.
Era evidente che i giudici erano discordi e disorientati sul da farsi, nessuna prova di una vera e propria colpevolezza era affiorata, fu evitata alla ragazza la vera e propria tortura adattata in quegli anni di tardo Medioevo, molto probabilmente non l’avrebbe sopportata, e molti sostenevano che accusarla ne avrebbe fatto del suo nome quello di una martire; ma assolverla era impensabile, sarebbe stato peggio che renderla martire.
Tra il Trecento e i Quattrocento le istituzioni inquisitorie erano cadute nelle mani del nascente Stato assoluto, e che i processi di eresia potessero essere trasformati facilmente in processi politici.
Alla fine fu espressamente reso pubblico che le corone di Francia e di Inghilterra pretendevano una condanna, quindi il verdetto fu deliberato e Giovanna fu dichiarata colpevole. Ma c’era ancora chi voleva risparmiarle il rogo, mettendola a dura prova per farla confessare. Finalmente ella parve cedere.
Le furono elencati i capi d’accusa pubblicamente, il giorno seguente fu costretta ad ascoltare una predica-requisitoria dove, in lontananza, si ergeva il palo per il rogo che le avrebbero fatto evitare.
Giovanna cominciò a fare richiesta di appellarvi al papa, ma la corte finse di non aver udito. Le misero precipitosamente tra le mani un documento da firmare, un abiura di poche righe, forzandole la mano per farla firmare (dichiarato da loro: “guidandole la mano”). Fu ancora minacciata, ma i testimoni confermarono che la ragazza era abulica, frastornata e non comprendeva molto di ciò che le stava accadendo; altri sostenevano che rideva, prendendosi gioco di tutti.
Si impegnò a non tagliarsi più i capelli e a non portare alcun abito maschile. Il breve documento firmato da lei fu sostituito da un documento lungo almeno una cinquantina di righe, indossò abiti femminili e fu riportata in prigione.
Ma gli inglesi non furono d’accordo per come stavano andando le cose.
Passarono tre giorni, la domenica del 27 maggio, festa della Trinità, vennero avvertiti i maggiori esponenti della corte che la ragazza aveva indossato gli abiti maschili, ma nessuno sa cosa fosse successo: se di sua spontanea volontà o che vi fosse stata indotta da esterni.
Quei tre giorni rimasero sconosciuti, ma sappiamo per certo che Giovanna aveva chiesto invano di essere custodita in una sede religiosa.
Un testimone afferma che il giovedì Jeannette aveva accettato gli abiti femminili, ma che la domenica un guardiano glieli aveva strappati di dosso per farle indossare quelli maschili.
Fu interrogata nuovamente, Jeannette ammise la sua colpevolezza: aveva indossato gli abiti maschili di sua spontanea volontà.
L’ultimo e concitato interrogatorio non avvenne in presenza di testimoni, quivi nasce il sospetto che la ragazza fosse stata costretta a riprendere gli abiti maschili e a dichiarare il falso.
Ora la Chiesa poteva solo abbandonarla al braccio secolare per essere bruciata al rogo.
Giunse il momento, Giovanna desiderava il conforto di un crocifisso. Fu un soldato inglese, pietosamente, le confezionò un crocifisso fatto con due pezzi di legno. Anche un frate corse alla vicina chiesa per prendere una croce astile e avvicinarla, per poterle fare avere il conforto di Cristo dall’alto del suo rogo.
Intorno a lei si avvolsero ghirlande umane in preda al pianto, circondata dalle fiamme, gridò più volte ad altissima voce il nome di Gesù.