Questioni “proibitive”

Siamo nei primi del XIX secolo quando, per motivi morali, i predicatori protestanti iniziarono la lotta contro i liquori. Nel 1826 nacque l’American society for the promotion of temperance, dove riprese tale lotta e, vent’anni dopo, il Maine fu il primo ad approvare una legislazione proibizionista, imitato da altri dodici Stati del Nord nei primi del XX secolo.
Quando si trattano argomenti come il proibizionismo, di logica, la nostra mente ci porta agli anni ‘trenta del ventesimo secolo. Ma non perdiamo di vista che, questo argomento, è assai più complesso e ricopre uno spazio temporale molto più ampio. Il proibizionismo, a oggi utilizzato come, in generale, riferito a qualsiasi metodo legale per controllare la produzione, lo smercio e il consumo di bevande alcoliche, fino alla proibizione totale di tutte e tre le fasi – in particolare, la parola si riferisce al regime di proibizione assoluta adottato negli Stati Uniti dal 1919 al 1933 –, potrebbe essere collocato e ampliato su larga scala e non più confinata sul suolo Nord Americano.
La discussione a favore o contro il proibizionismo durava negli USA già da un secolo e regimi più o meno proibizionisti vigevano dall’inizio dell’Ottocento a livello locale (stati, contee o singoli villaggi), con restrizioni sulla produzione, sulle licenze sugli orari di vendita e le quantità. Una lotta che dovenne più accesa dopo la guerra civile, dove le donne erano divise tra coloro che lottavano per l’indipendenza e coloro, temendo che ciò accadesse, spingevano per una rigidità su molti più fronti.
Nacquero associazioni come Unione delle donne cristiane per la temperanza, il Partito proibizionista, l’Associazione per la temperanza. Nel corso degli anni la lotta agli alcolici fu fatta propria anche dai deputati progressisti dei partiti democratico e repubblicano; trascurando un dettaglio molto importante: il proibizionismo si rivelò disastroso, permettendo alle azioni criminali di diventare organizzate, soprattutto sull’utilizzo del contrabbando di alcool. Quivi prosperò il gangsterismo.
Il regime fu abolito dal presidente Roosevelt.
Ritorniamo indietro di qualche anno: siamo nei primi anni del novecento quando gli effetti dell’alcolismo resero inefficienti gli operai nella loro manodopera dove, già nel 1915, metà degli Stati avevano vietato il consumo di bevande alcoliche. Nacquero associazioni come American anti-saloon league, dove portarono all’approvazione diciottesimo Amendment act della Costituzione federale (gennaio 1919), cui seguì una legge federale (nota come Volstead Act dal suo proponente), con cui si definì come bevanda alcolica ogni liquido contenente oltre lo 0,5% di alcol (con eccezione di alcolici a scopo medico).
L’ipocrisia lanciata dal governo per un proibizionismo che poi, dimostratosi, a favore della criminalità organizzata, non mancò durante il primo conflitto mondiale quando la discussione del diciottesimo emendamento iniziò al Senato nel gennaio 1917, accelerata dalla dichiarazione di guerra alla Germania in Aprile per l’isolamento della rappresentanza di americani di origine tedesca, composta da wet.
Provocato un sentimento di ostilità, seguito da episodi d’odio, fu denso di conseguenze negative come: trasporto abusivo e la produzione illegale di liquori – consumati infine in una fitta rete di locali clandestini. Scontri fra violente bande rivali, di territori, etc…
Nel 1932 la vittoria elettorale portò all’approvazione del ventunesimo emendamento, che abrogava il diciottesimo e restituiva ai singoli Stati la libertà di decidere in materia di produzione e commercio di alcolici.

L’etimologia della parola Alcool deriva dall’arabo al-khul, ovvero il Kohl o Kajal: polvere finissima di antimonio o stibnite che gli Egizi si mettevano intorno agli occhi come protezione, o per annerire le sopracciglia (donde poi gli alchimisti dissero alcol ogni polvere essenziale o essenza in genere, utilizzato come un collirio oppure per ragioni cosmetiche).
Quando in occidente si introdusse la chimica araba e traslato la parola, è poi passata a significare una sostanza purissima, o un’essenza di qualcosa che tendeva a sublimare per diventare spirito. Ed è proprio in quest’ultima accezione che al-kuhl è passato nelle lingue europee, in cui, come per numerosi altri casi di vocaboli assimilati grazie a scambi culturali e scientifici con gli arabi il sostantivo si è fuso con il suo articolo; oggi indica tutti i composti organici in cui un gruppo ossidrilico (-OH) è unito a un atomo di carbonio saturato. Il loro contenuto semantico si sovrappone – per una fondamentale legge dell’evoluzione linguistica – è inevitabile che uno dei due soccomba o che, almeno, assuma accezioni semantiche diverse.
Si sa che Spiritus era per i Latini il soffio, il respiro, per poi diventare la parte più nobile delle cose (come l’anima, per esempio). Fu per questo che l’alcool prese nome anche come “spirito”, perché le sue caratteristiche, soprattutto con la sua tendenza a trasformarsi facilmente in vapore, si adattano perfettamente a questa ultima accezione della parola latina.
La brezza dello spirito che porta alla leggerezza: ed ecco che vengono le bevande spiritose per dare il via ad altri tanti termini.
Purtroppo il nazionalismo – passatemi il termine – tendeva a “nazionalizzare” le terminologie atte a indicare e ad avere tali origini straniere; la parola alcool non è entrata senza resistenze nella lingua italiana, non molto tempo addietro essa voleva essere italianizzata in alcole (plurale: alcoli).
A oggi, lingua corrente – lingua fit in ore vulgi – non ha accolto il suggerimento se non per il plurale alcoli, anche se alcole, comunque, continua a essere usato nei testi di chimica organica e nei giornali specializzati.

Gli alcolici si consumavano soprattutto nei saloon, punti di aggregazione, specie nei piccoli centri dei Territori dell’Ovest. I distillati come il whiskey erano diffusi anche come disinfettanti e medicinali; spesso si usavano per pagamenti in natura a causa della scarsità di moneta dopo la guerra di indipendenza. Spesso i saloon erano associati a una distilleria di cui vendevano le bevande in esclusiva; con la prima offrivano un pasto, di solito molto salato per invogliare a bere ancora. È una delle origini popolari per il detto there’s no thing like a free lunch (non esistono pasti gratis).
Gli alcolici si producono abbastanza facilmente dalla fermentazione di vegetali come cereali, ginepro, mele, etc… Alcuni non necessitano nemmeno di invecchiamento e sono facilmente trasportabili. Quando si rimaneva senza acqua a lungo venivano utilizzati come dissetanti senza avere dissenteria (per le situazioni igienico sanitarie di un tempo). A questo, i consumi divennero enormi, soprattutto nella seconda metà del secolo decimo nono. Abusare di questa sostanza creava dei problemi nella società: essa era la base di risse e violenze, di problemi di salute e anche di corruzione – molti politici chiedevano voti offrendo da bere, l’indipendenza dei nativi americani, etc…
Tutto questo portò le basi del proibizionismo, un termine contemporaneo che, per molti pareri, ha base anche moderna.
Le “proibizioni” della Chiesa con le sue inquisizioni portarono alla riforma con altrettante interdizioni, per poi sfociare in una controriforma e la svolta delle inquisizioni. Per la donna è sempre stato un mondo “proibitivo” dove, per poter essere libera si dava al “contrabbando” del proprio corpo. Non dimentichiamo le “prohibitio-onis” di una razza (la schiavitù negriera), che portò allo sterminio di altri popoli…
Il proibire ha sempre sfociato in un turbinio di: azione e reazione (una sempre più negativa e violenta dell’altra).
Il veto della libertà di una donna, di un popolo, dell’alcool, delle sigarette, della droga… hanno portato a violenze interne, sfruttamento, genocidi, organizzazioni malavitose.
La vita e la libertà sono importanti, ma non dimentichiamoci che la nostra libertà finisce quando inizia quella di un altro.

Pubblicato da isottafranci

Scrittrice, illustratrice, pittrice e appassionata in storia

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