La storia dell’Italia tirrenica comincia con l’arrivo dei Greci. La prima colonia greca nel Tirreno, e probabilmente la prima città che sia mai stata fondata dagli Elleni fuori dalla loro patria, sorse nel 770 a.C. sull’isola d’Ischia. Il fatto stesso della sua nascita dimostra che i suoi fondatori – Eubei – conoscevano bene la geografia della regione e le sue risorse, il che implica chiaramente che i loro rapporti con l’Italia erano cominciati molto tempo prima.
I Greci vennero nel Tirreno in cerca dei metalli, rame e ferro, della Sardegna e delle Colline Metallifere. Con sé portavano una cultura sofisticata, di cui troviamo un riflesso nei poemi, grosso modo contemporanei, di Omero. Anche l’adozione da parte degli indigeni della coltura della vite e dell’olio, che faceva parte del modo di vivere greco; l’olio di oliva e il vino, come i vasi geometrici, erano però solo gli elementi materiali della civiltà che si era sviluppata in Grecia nei secoli oscuri, una civiltà i cui tratti fondamentali erano in primo luogo la città-stato e la scrittura. La provenienza greca delle scritture italiche è evidente; altrettanto ovvia sarebbe dunque l’opinione che la città-stato italica sia nata sul modello della polis greca.
La scrittura etrusca, le cui origini risalgono al più, agli anni 730-720, è solo la prima manifestazione all’assorbimento degli influssi intellettuali ellenici da parte dei popoli dell’Italia. È altrettanto evidente e altrettanto notevole che i popoli italici, anche i più aperti alle influenze greche, gli Etruschi e i Latini (i Latini sono indoeuropei), mantennero la loro identità culturale e individuale.
I Romani non accettarono mai la fondamentale aritmetica politica degli alleni: un votante = un voto.
L’apertura delle comunità civiche italiche nei confronti degli stranieri, il fatto che un immigrato di un’altra civiltà ottenesse quasi automaticamente la cittadinanza locale, era in contrasto fragrante con l’esclusività delle polis greche.
Per i Romani (e gli altri latini) l’idea dello Stato e il concetto di cittadinanza si svilupparono diversamente che in Grecia.
Partiamo, ora, dalle origini di Roma: la tradizione sulle sue origini è stata trasmessa in due cicli di leggende. L’uno, troiano-latino, racconta la più antica storia dei Latini in un particolare della loro dinastia regnante, a partire dall’eroe troiano Enea. La seconda è la storia dei gemelli semidivini, la fondazione di Roma, il ratto delle sabine e l’apoteosi di Romolo.
Tutto questo era, per la Roma di allora, la relazione leggendaria dei seguenti avvenimenti capitali: la fondazione di Roma sul Palatino (747 o 728, affermandosi infine al 753), cioè la nascita della comunità civica dei Romani e l’instaurazione dei rapporti speciali tra essa e il mondo divino; l’unione della città palatina con i Sabini insediati sul Campidoglio e sul Quirinale; la creazione delle fondamentali delle istituzioni politiche della comunità.
Le gesta di Romolo comprendevano, oltre alla fondazione della città e dall’unione con i Sabini, la costituzione delle principali strutture sociali della comunità. Le più importanti erano le trenta curie, Quirites, nel loro insieme costituivano il corpo civico di Roma: popolus Romanus Quiritium (“il popolo romano dei membri delle curie”). Siccome il dio protettore delle curie vegliava sulla totalità dei rapporti tra i Quirites, Romolo – il fondatore della comunità – fu riconosciuto come sua incarnazione.
L’epoca regia.
L’inaudita espansione di Roma regia è fuori dubbio, la prima forma politica fu la monarchia. Si trattava di una monarchia non ereditaria ma elettiva: i sovrani, infatti, erano scelti dal Senato e dai Comizi Curati. La tradizione ci tramanda che i re di Roma furono sette (ma è possibile che siano stati anche di più) e furono Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Lucio Tarquinio.
Il Senato aveva il compito di eleggere il re, ed era formato dagli anziani a capo delle maggiori famiglie, le gentes. Queste ultime erano gruppi di famiglie che discendevano da un unico antenato nobile; i membri di una gens (singolare di gentes) praticavano gli stessi culti, e avevano delle proprie assemblee.
Questo governo monarchico durò circa due secoli e mezzo (dal 753 a.C. al 509 a.C.). Va sottolineato che i primi quattro re furono latini e sabini, gli altri re furono di origine etrusca – l’origine non latina di alcuni dei re di Roma potrebbe stare a dimostrare la sottomissione di Roma ad altri popoli.
All’epoca il popolo romano era diviso in due classi: i patrizi, che discendevano dagli antichi abitanti di Roma e rappresentavano la parte più ricca della popolazione, ed i plebei, la maggior parte della popolazione. Essi erano per la gran parte piccoli agricoltori, artigiani e commercianti stabilitisi a Roma dopo che lo Stato era già stato fondato e quindi erano esclusi dalla vita politica riservata esclusivamente ai patrizi, considerati gli unici veri cittadini romani. Con il passare del tempo, i plebei più agiati si accorsero che con il loro lavoro, essi provvedevano in modo determinante al mantenimento dello Stato e pretesero di poter partecipare con una propria rappresentanza alla politica cittadina. Il re Servio Tullio, accortosi del malcontento che serpeggiava tra i plebei, decise di accogliere le loro istanze, risolvendo in tal modo una situazione che rischiava di degenerare in qualcosa di pericoloso per la stabilità di Roma. Partendo dal principio che ciascun cittadino aveva il diritto di partecipare alla vita pubblica in rapporto alla propria ricchezza, suddivise la popolazione in cinque classi secondo il censo, dividendo poi ogni classe in centurie. L’assemblea popolare risultò quindi formata dalla riunione di tutte le centurie, i comizi centuriati, che prendevano le decisioni riservate inizialmente ai soli patrizi. Poiché nell’assemblea i voti venivano assegnati per centuria, si mise in evidenza lRsquo; inefficacia di questa riforma, in base alla quale veniva concesso alla plebe di partecipare alla vita politica, ma nel contempo lasciava il potere decisionale ai patrizi. Infatti, i voti a disposizione di questi ultimi erano 98, come le loro centurie, mentre alla plebe ne venivano assegnati 90. Ogni classe era obbligata a fornire all’esercito tante centinaia di soldati quante erano le centurie in cui era suddivisa. I soldati dovevano provvedere personalmente al proprio equipaggiamento ed al proprio mantenimento. I plebei nullatenenti erano esclusi dall’ordinamento centuriato e non avevano alcun peso nella politica romana.
Alla fine del VI secolo l’ultimo re della dinastia dei Tarquini fu cacciato da Roma; il suo posto venne preso da due magistrati annuali, i consoli. Secondo la tradizione il colpo di stato fu opera di due parenti strettissimi di Tarquinio il Superbo, il nipote Lucio Giunio Bruto e il cugino Lucio Tarquinio Collatino.
Storia della Roma monarchica